Da molti anni leggiamo articoli di giornali e ci troviamo di fronte a servizi radio e Tv che denunciano fatti di cronaca, spesso edulcorati, che attaccano la scuola pubblica, specialmente la scuola dell’Infanzia e la Primaria per ‘interposta persona’. L’opinione pubblica viene portata ad immaginare così guasti e responsabilità che in realtà sarebbero solo in minima parte ascrivibili alla scuola di stato.
Il più delle volte, ad un’attenta rilettura, i dati di fatto dimostrano la tendenziosità della ‘notizia’: problemi negli asili nido comunali? Colpa delle ‘maestre’! Casi di maltrattamenti nelle scuole dell’Infanzia private? Colpa delle ‘maestre’! Pratiche inaccettabili in alcuni centri per anziani e per diversamente abili? Colpa delle ‘maestre’! Ogni volta che vengono fatte girare queste notizie, gli autori si guardano bene dal ricordare che gli addetti di quei servizi non ricoprono ruoli statali, sono stati assunti da strutture per l’accesso alle quali non è richiesta la laurea (come invece per la scuola pubblica di ogni ordine e grado), e neppure le conoscenze del vecchio Istituto Magistrale. Se l’informazione fosse completa e non tendenziosa, sarebbe del tutto evidente che nella maggior parte dei casi, semplicemente non si può proprio parlare di ‘maestre’…
Ma la cosa ha anche un altro risvolto. È utile a raccogliere e mettere a profitto il ben diffuso odio già seminato contro gli insegnanti da gruppi d’interesse e forze politiche che hanno sempre trovato nella scuola un muro contro la politica della discriminazione, come nel caso della risposta soldale del grosso del corpo docente locale e nazionale alle disposizioni della ‘sindaca’ di Lodi che pretendeva l’apartheid dei bambini extracomunitari non in ‘regola’ con i contributi per la mensa. Ovvero l’esatto contrario, in termini educativi, della mission della scuola pubblica che, come afferma la Costituzione, deve semmai ‘rimuovere’ gli effetti delle diguaglianze.
Ormai c’è terreno fertile per chi soffia sul fuoco, in ambienti ove l’ignoranza e l’egoismo sono diventate ‘virtù’ da sfoggiare e rappresentare come un’onorificenza. In una parte notevole dell’Italia ‘profonda’ s’avverte sempre più l’insofferenza verso qualsiasi presidio civico e di legalità. Una società ‘incivile’, ove si pretendono ‘a prescindere’ voti alti e promozione garantita, in linea con una trentennale casta di governanti senza arte né parte e con le loro controriforme dell’istruzione. Ove la scuola è valutata e retribuita nulla e perciò non dovrebbe mai permettersi di ricordare neppure i ‘precetti’ minimi del rispetto, dell’equità (anche nella valutazione), nonché del vivere comune. Proprio perché la scuola è rimasta sempre più sola, anche a fronte di famiglie senza regole e senza ruoli, a ricordare almeno qualche volta nella vita gli elementi minimi della convivenza. Ed ormai, soprattutto grazie ad un’area significativa della popolazione allogena, siamo scesi sotto il ‘minimo sindacale’. Ormai disturbano persino il ‘non si urla, non si sputa per terra, si mangia con le posate’…
L’ultima trovata per cercare di spezzare il fondamentale vincolo di fiducia fra scuola e società civile (che è alla base del famoso ‘patto educativo’) è il disegno di legge per imporre telecamere nella scuola, usando come primo ‘passaggio’ l’invasione di campo negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia, magari senza coinvolgere quelle strutture private che sono proprio all’origine dei fenomeni vergognosi registrati dalle cronache. Ma dietro questa manovra c’è di più. Come sostiene il pedagogista Daniele Novara, chi sostiene l’imposizione delle telecamere mira anche a far fare al Paese ulteriori passi verso una scuola sempre più digitale, in combutta con le lobbies dei produttori degli strumenti digitali e della sub-cultura delle competenze: quelli che pensano che un tablet possa in buona misura sostituire un docente. Perché non si pensa invece all’ingresso nell’obbligo dell’ultimo anno di scuola dell’infanzia, imponendo così allo stato di far fronte al vuoto pauroso di strutture, nonché di riconvertire i servizi comunali secondo i ben più alti standard previsti nello stato? Nessuno ricorda mai che gli anni da zero a sei, sono fondamentali nello sviluppo della persona, più ancora quelli successivi: eppure in questo segmento si interviene in modo frammentato, spesso deprofessionalizzato e lo si tratta come ‘servizio’ semplicemente custodialistico. Né ha detto qualcosa di nuovo e decisivo la legge-delega collegata alla mala-scuola renziana, che semmai dà più spazio e fondi (senza controlli) al privato, non s’occupa di adeguare in alto i titoli di studio e nulla dice sull’ingresso nell’obbligo.
Questa offensiva, fatta di vere e proprie fake-news, non a caso, è condotta contro la scuola di base. Questa rappresenta il primo, spesso determinante ‘step’ nella scelta fra sistema pubblico e privato. La scuola Primaria, ‘maestra’ nel sempre tanto avversato tempo pieno, col suo alto livello inclusivo e professionale, nonché la sua specificità didattica multietnica e dell’integrazione dei diversamente abili, è quella che più disturba le velleità concorrenziali, ovvero la cosiddetta ‘sussidiarietà’ che pompa soldi pubblici nelle scuole-azienda, di tendenza e confessionali. Nessuno segnala che la governance di questi ‘asili’ o di queste ‘scuole’, anche quelle comunali, non è normalmente sottoposta ad alcun controllo e che il personale ‘docente’ viene reclutato senza abilitazione e con titoli di studio che per il segmento dell’infanzia e della primaria sono semplicemente ridicoli, diplomi e diplomi-mini (ovvero diplomini), se confrontati con quelli richiesti nel sistema pubblico statale (laree specifiche, nonché percorsi e concorsi abilitanti). Nessuno segnala che ciò avviene a causa delle annose carenze dello stato, che anziché istituire almeno scuole dell’infanzia proprie, ha scientemente lasciato che nel segmento da zero a sei anni le strutture private e comunali diventassero maggioranza. Una scelta politica tesa a favorire, come al solito in questo Paese, sia gli apparati confessionali, che le necessità clientelari degli enti locali o, peggio ancora, gli appetiti di ‘enti gestori’ senza controllo, spesso legati a gruppi d’interesse che agiscono oltre i limiti della legalità, ad esempio evitando di riconoscere contributi e persino qualsiasi stipendio agli ‘insegnanti’. Quegli stessi ‘insegnanti’ che accumulato così un bel bottino di punti, dai tempi di Luigi Berlinguer in poi vergognosamente riconosciuti per arrampicarsi nelle graduatorie statali e superare i ben più rispettabili precari che lavorano nella scuola pubblica, chiamati in base ad una posizione maturata con sacrifici, spostamenti di residenza e quant’altro invece che grazie a conoscenze ‘paesane’, arbitrii e connivenze.
Tale vergognosa campagna di disinformazione ha anche effetti interni alla categoria. Il primo è il divide et impera fra docenti della Secondaria e della Primaria.
In alcuni casi abbiamo persino assistito ad una sorta di levata di scudi, non già contro l’elezione di quei ‘comitati di valutazione’ che la L. 107/2015 ha cercato di introdurre in tutte le scuole per realizzare ‘l’operazione demerito’ incentrata sullo strapotere del dirigente, bensì contro la presenza di insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia negli istituti che comprendono anche le ‘medie’, se vengono eletti in questi ‘comitati di Sua Maestà’. Per alcuni sprovveduti questo sarebbe stato un ‘paradosso’, mentre paradossale, ma davvero, è invece questo ridicolo ‘dibattito’, questa piccola, paradossale e ridicola guerra fra poveri. Peraltro, chi sta nel famoso ‘comitato di valutazione’ non valuta nessuno: la L. 107 chiama i membri del comitato solo ad elaborare i “criteri” per la valutazione dei docenti ma, rifacendosi alla gerarchia dei veri criteri, quelli previsti per legge (ed il primo richiama proprio una valutazione discrezionale che non consente, ad esempio, di mischiare la presunta ‘qualità’ con la quantità), il dirigente può tranquillamente ‘fregarsene’, perché lui solo deciderà sui ‘meritevoli’. È il ‘comitato’ in sé il paradosso, ma non c’è proprio nulla di male nell’eventuale presenza o meno di un insegnante ‘elementare’ nel ‘comitato’, cosa del tutto fisiologica negli istituti comprensivi.
Se ci fermiamo alla mera ‘qualifica’, la ‘guerra’ alle ‘maestre’ è assolutamente impropria, visto che l’ordine e grado di istruzione qualitativamente migliore in Italia (e lo sanno tutti) è, ed è sempre stato, la scuola primaria. Al primo posto nel pianeta sino al 1990 secondo l’Ocse, scesa attualmente al sesto, ma a causa degli interventi distruttivi operati inizialmente con l’introduzione di criteri adultistici con i moduli ‘4’ – insegnanti – ‘su 3’ – classi –, ed ‘a scavalco’ – insegnanti disposti a completamento orario su cicli diversi – già dai tempi della L.148/1990. La distruzione avanza poi con Letizia Moratti, che ne ha distrutto i programmi e con Maria Stella Gelmini grazie al cosiddetto ‘maestro prevalente’. Nessun giornalista tiene conto dei ben diversi ‘piazzamenti’ raggiunti dalle Medie e dalle Superiori, ordini di scuola che soffrono da molti anni la mancanza di interventi appropriati (e l’abbondanza di interventi inappropriati).
Nella Primaria si entra con la laurea dal 2000 ed ormai l’80% di maestri e maestre è laureato (erano più della metà anche precedentemente). Eppure, vergognosamente, lo stipendio è sempre lo stesso e non si può utilizzare quella laurea neanche per la ricostruzione di carriera (mentre i diplomati delle Medie – educazione tecnica e motoria – hanno goduto dal 1974 della parificazione d’orario e stipendio con i laureati del medesimo ordine di scuola).
In campo metodologico-didattico, in Italia, l’innovazione nasce o alle Elementari (Mario Lodi, Alberto Manzi, etc.), o nella scuola dell’Infanzia (Montessori, Agazzi, etc.), e gli stessi concorsi hanno sempre previsto per la Primaria adeguate conoscenze pedagogiche e di congrui elementi di psicologia dell’età evolutiva. Cose troppo spesso colpevolmente non richieste per gli altri ordini e gradi di scuola. Danni fatti da Giovanni Gentile (filosofo fascista), e dalla concezione idealista e classista, secondo la quale basterebbe la conoscenza della materia d’insegnamento per saper insegnare. In realtà non si può prescindere né dalla capacità empatica (che s’impara sul campo), né dalla conoscenza dell’ambito metodologico-didattico. La visione ‘ordinatoria’ gentiliana ha imposto un’idea ‘piramidale’ della scuola, riservando al Liceo Classico il ‘titolo’ di ‘scuola d’eccellenza’, ma relegando tutto il resto in subordine, in primis la Scuola Elementare, all’epoca considerata una riserva per ‘maestrine dalla penna rossa’.
Però non esiste chi sia ‘più docente assai’. Avere a che fare con alunni di età più bassa non significa avere conoscenze, competenze e responsabilità ‘inferiori’ (semmai sarebbe il contrario). Esattamente per questo, non solo l’Unicobas, bensì chi sa di scuola e di pedagogia, si batte da sempre per il ruolo unico docente, che significa eguale rispetto, orario, retribuzione per tutti gli insegnanti, dalla Scuola dell’Infanzia alle Superiori (con parificazione al livello apicale e nell’ambito della media retributiva europea).
In ogni caso, a giudicare dalle urla e dagli strepiti dei media e degli opinionisti ‘tuttologi’ (spesso del tutto digiuni di scuola), la Scuola italiana nel suo complesso dovrebbe essere all’ultimo posto nel ‘gradimento’ dell’opinione pubblica. Viceversa, mentre per la giustizia e per la sanità esprime un giudizio lusinghiero solo il 24% della popolazione, per la pubblica amministrazione solo il 30%, ben 55 italiani su 100 si ritengono invece soddisfatti della scuola ( ).
La questione ‘qualità’, riguarda principalmente la formazione di base ed il sistema di reclutamento del corpo docente. Le polemiche su quanto succede a volte (anche) nelle scuole (polemiche che, come si ripete, il più delle volte non dovrebbero riguardare la scuola pubblica statale, bensì asili nido privati o comunali, scuole private, non solo dell’infanzia, e centri privati per diversamente abili o per anziani) sono molto speso strumentali, perché prima di tutto eludono proprio la formazione di base.
Chi si occupa davvero di scuola (e non solo l’Unicobas) è da sempre per lauree direttamente abilitanti, con un biennio obbligatoriamente ad indirizzo metodologico-didattico, almeno un anno di tirocinio tutorato in sede universitaria, tesi ad indirizzo metodologico-didattico ed esami di psicologia dell’età evolutiva, e per assunzioni direttamente dalle graduatorie di merito universitarie ed un anno di prova tutorato direttamente nella scuola ove si viene assunti. Pare evidente che ha molto più senso una ‘valutazione’ ab origine che dopo l’assunzione (quando eventuali danni sono già stati prodotti).
Tutto ciò ha necessità di un intreccio con i diritti acquisiti dagli attuali precari e quindi deve essere preceduto da assunzioni tramite un canale di reclutamento ove contino le abilitazioni già conseguite, nonché il servizio, e che dia la possibilità di abilitarsi a quanti non abbiano potuto farlo a causa dell’assenza di concorsi specifici.
Stefano d’Errico
(Segretario Nazionale Unicobas Scuola & Università)