La scomparsa di Carlo Lizzani lascia un vuoto enorme nel mondo della cultura e nel Paese, ma non misurabile è la lacuna in chi ha avuto la fortuna e l’onore di poterlo incontrare e conoscere. A me è successo grazie a Francesco, suo figlio, insegnante di filosofia iscritto all’Unicobas, ma soprattutto persona di grande acutezza e sensibilità, che gli segnalò il mio studio antologico e biografico su Camillo Berneri, che sollevò in Lizzani curiosità, interesse ed apprezzamento (in lui, uomo della Resistenza del Partito Comunista Italiano), tanto da spingerlo ad organizzare un incontro a quattro con Marco Tullio Giordana, con tanto di suggerimenti per un film su quell’anarchico prezioso ucciso dagli stalinisti durante la guerra civile spagnola.
Ho trovato in Lizzani, sino all’ultimo (l’incontro avvenne meno di un anno fa) una lucidità ed un’attenzione critica, un’onestà ed una ‘flessibilità’ intellettuale da far invidia a qualsiasi età, adolescenza compresa, in un corpus di esperienze più unico che raro ormai in questo deserto intellettuale che è diventata l’Italia. Un Paese che molti della generazione di Lizzani hanno amato talmente da rischiare la vita con animo leggero e che, nonostante il lavoro immane di tanti (umili) giganti, scevri da lusso, cafonaggine e supponenza, non consente ancora, all’alba del 2013, neppure la civiltà di un suicidio assistito. Uomini come lui rimangono dentro, uomini come lui praticamente non ce ne sono più.
Stefano d’Errico