Il mio mestiere è quello dell’insegnante, da sedici anni e da dieci in una scuola di periferia nell’hinterland di Napoli. Tuttavia, da qualche anno mi sento e mi vedo assomigliare gradualmente a una commessa che, peraltro, deve diventare sempre più capace e abile nel suo nuovo mestiere: vendere una merce, ampliare la clientela, accontentare il cliente, dargli quello che vuole, industriarsi per procacciargli ciò che chiede e, non ultimo, rendere invitante la vetrina. Tra poco, però, avrò un avanzamento di carriera, lavorerò in un’azienda. Oltre che accontentare la clientela dovrò eseguire quello che il mio datore di lavoro mi chiederà di fare, magari anche con un po’ di lavoro a cottimo. Naturalmente sempre per il bene dell’azienda, privatizzata s’intende e che, al passo con i tempi, sarà in Europa grazie a Internet, Inglese, Impresa.
La qualità dell’insegnamento, credevo, dovesse essere il frutto del lavoro, dello studio, dell’esperienza degli insegnanti, dei singoli e egli organi collegiali. Del rigore che la maggior parte di noi ha.
E’ per questi semplici, quotidiani motivi, ma non solo, che sono favorevole alla creazione dell’Ordine degli insegnanti. E’ l’unico mezzo, di impatto forte, che abbiamo ora per definirci e identificarci per quello che siamo: professionisti dell’educazione e della formazione. Per poter decidere di noi, dall’interno della nostra professionalità.
Forse i colleghi in disaccordo sull’ordine gradiscono di essere valutati in futuro dalla Confindustria (storia già vecchia) o dai presidi (storia vecchia e nuova insieme) o dai parlamentini che si formeranno nelle scuole (anche questo è già visto) composti da coloro che si sono saputi scavare la propria nicchietta e che anzi non aspettano altro se non che sia il preside a valutarci.
E a valutazione avvenuta, cosa accadrà ai valutati insegnanti in una scuola azienda, con un dirigente manager, datore di lavoro; insomma, nella Scuola dell’Autonomia?
Di contro, è vero che ciascun ordine professionale decide al suo interno criteri e fini della valutazione e chi, all’interno dell’Ordine, è chiamato a valutare. Dunque non il preside, non valutatori esterni (confindustriali o quant’altro suggerirà la fantasia di chi dovesse stabilirlo in mancanza dell’ordine), non i genitori, non gli alunni, non gli studenti.
Ciascuno di noi sa bene quanto sia difficile valutare il nostro lavoro, proprio perché noi conosciamo ciò di cui andiamo parlando. Mi chiedo da qualche settimana in che modo sarei stata valutata io, la mia efficacia o meglio la mia efficienza, se qualcuno di questi fantomatici valutatori esterni e aziendali avesse sentito una delle mie alunne di quest’anno, prima media, pure tra quelle bravine, dirmi che molti degli extra comunitari non hanno il permesso di salotto. In quell’ambiente degradato, povero linguisticamente, il soggiorno è al massimo una stanza di casa. Non importa quante stanze o case hanno, nulla è peggio dei soldi senza cultura.
Io devo insegnare parole, senso della dignità e valore della legalità.
Come si valuta tutto questo, con quali criteri e chi lo potrà valutare? Resto convinta che solo altri insegnanti lo potrebbero fare, perché consapevoli della valenza del nostro valore, delle diversità, delle differenze di quelle che purtroppo si chiamano platee scolastiche: in sintesi della complessità di questo lavoro.
Io non voglio essere valutata su criteri astratti, ambiguamente o ingannevolmente uguali per me e per chi lavora in scuole in “ambiente bene”, dove salotto significa una cosa e soggiorno almeno due e tre, anche prima di mettere piede in una scuola.
Un altro assunto che, coi tempi che corrono, l’ordine degli insegnanti può garantire e difendere è quello fondamentale della libertà di insegnamento. Un professionista è libero e al contempo pienamente responsabile di ciò che fa, perché compie scelte dettate dalla propria professionalità, appunto, in relazione al tipo di intervento necessario. In questo mi riferisco ancora una volta, oltre che al singolo, alle professionalità cumulate, cooperanti dei consigli di classe e dei collegi dei docenti, a quelle che sappiamo diventare una professionalità comune, con obiettivi comuni al cui raggiungimento essa è finalizzata.
Quali scelte metodologiche, quali contenuti adottare, sia pure nel rispetto dei programmi ministeriali (che mi auguro restino tali, uguali per tutti e ovunque), è cosa che investe la libertà di insegnamento.
Un professionista dell’educazione è in grado di operare queste scelte, un impiegato d’azienda, per definizione, lo è assai meno.
Romilda Scaldaferri
(Segretaria Provinciale Unicobas Napoli)