Mercoledì 27 Febbraio 2019
Sciopero intera giornata per scuole ed università con manifestazione nazionale a Roma, h. 9.30/14.00,
P.zza di Monte Citorio
Il 15 Febbraio il Presidente Conte riceverà il mandato del Governo per avviare un breve iter di consultazioni per stabilire l’intesa con i governatori delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che hanno chiesto l’autonomia differenziata. Poi le norme prevedono che le Camere vengano chiamate ad un pronunciamento secco: sì o no, licenziando il disegno di legge senza possibili emendamenti.
Il cosiddetto ‘federalismo scolastico’ (vecchio cavallo di battaglia della Lega già da quando Bossi parlava di ‘scuola nazionale padana’), grazie al tradimento dei 5 Stelle verso il loro elettorato (prevalentemente del Sud, il quale scopre solo ora questa ‘novità’ che mai ha fatto parte del programma del Movimento), è entrato nel ‘contratto di governo’ Salvini-Di Maio. Il Pd fa da ‘pesce in barile’: basta pensare che la preintesa sulla regionalizzazione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna era già stata concordata con Gentiloni.
Questa vergogna è stata resa possibile dal nuovo assetto costituzionale scaturito dalla famigerata riforma del titolo V della Costituzione operata nel 2001 dal Governo Amato, di ‘centrosinistra’. Al tempo, con soli 6 seggi di maggioranza, venne votato che, qualora le regioni lo chiedessero, restasse allo Stato solo l’indicazione degli indirizzi generali sull’istruzione e dei “livelli essenziali delle prestazioni”, cedendo alle Regioni la cosiddetta “legislazione concorrente”, gestibile anche in forma esclusiva. Quella contro-riforma inaugurò ciò che poi diventerà prassi: attaccare i diritti fondamentali (come quello ad un eguale livello di istruzione) a colpi di maggioranza semplice. Fu pubblicata per la prima volta sulla Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2001, vigente il governo Amato. Essendo però stata approvata da entrambi i rami del parlamento a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri (alla Camera nel Febbraio 2001 ed in Senato nel marzo dello stesso anno), la modifica costituzionale fu successivamente sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, vigente il secondo governo Berlusconi, venendo approvata con il 64,20% dei voti validi. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” veniva quindi promulgata dal presidente della Repubblica e successivamente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001, per entrare in vigore nel Novembre del 2001.
Occorre subito una risposta ferma ed inequivocabile, specifica della Scuola e delle Università, senza dilazioni e compromessi. Non possiamo rischiare che il Governo faccia approvare il provvedimento senza aver dato al mondo dell’istruzione la chance per far sentire il netto rifiuto del provvedimento. Non abbiamo nessuna intenzione di ‘annacquare’ lo scontro cadendo nell’attendismo di quanti cercano di soppiantare la lotta con schermaglie legali sull’assenza della definizione dei ‘Lep’ o su altre barzellette ‘causidiche’ che coprono un’acquiescenza di fondo, quella ad esempio anche del Pd e della regione Emilia Romagna. Non saranno certo queste obiezioni a fermare Salvini ed il Governo penta legato. La boutade sui ‘Livelli essenziali delle prestazioni’ è figlia di quell’obbrobrio che furono prima la cosiddetta ‘autonomia scolastica’ e poi la riforma del Titolo V. Bastava ciò che già affermava la Costituzione, basata in particolare su: — libertà di insegnamento (art. 33, comma 1 Cost.); — presenza di scuole statali per tutti i tipi, ordini e gradi di istruzione (art. 33, comma 2 Cost.); — libero accesso all’istruzione scolastica, senza alcuna discriminazione (art. 34, comma 1 Cost.); — obbligatorietà e gratuità dell’istruzione dell’obbligo (art. 34, comma 2 Cost.); — riconoscimento del diritto allo studio anche a coloro che sono privi di mezzi, purché capaci e meritevoli mediante borse di studio, assegni ed altre provvidenze da attribuirsi per concorso (art. 34, comma 3 Cost.).
Esattamente ciò che viene compromesso con la cessione alle regioni in via esclusiva della gestione di Scuola ed Università, subordinate così alla differente ricchezza delle aree geografiche. Vale a dire ciò che chiede il Veneto: regionalizzazione del personale, contratti (anche con aumento d’orario, come nel Trentino Alto Adige) e titolarità regionali (che renderanno impossibile ai docenti del Sud di ritornare alle regioni d’origine). Per non parlare della sostenibilità delle strutture. Stando alle stime consolidate sulla spesa corrente, sono solo 6 le regioni che con l’operazione ci guadagnerebbero: Lombardia (+5,611mld di surplus); Lazio (+3,672); Emilia Romagna (+3,293); Veneto (+2,078); Piemonte (+1,162); Toscana (+805mln) e la Provincia Autonoma di Bolzano (+693mln). Tutte le altre ci perderebbero. Ecco di quanto si ridurrebbe il loro budget annuale: Marche (-105mln); Liguria (-347); Friuli Venezia Giulia (-410); Umbria (-1,213mld); Valle d’Aosta (-1,472); Campania (-2,086); Provincia Autonoma di Trento (-2,287); Abruzzo (-2,364); Puglia (-2,501); Sicilia (-3,576); Basilicata (-3,948); Molise (-3,996); Sardegna (-4,368); Calabria (-5,528). Stante l’attuale situazione di sfacelo dell’istruzione pubblica italiana (a cominciare dallo stato delle strutture, per il 90% non a norma), quali scuole potrebbero più garantire queste regioni? Di contro, parecchie università del Sud sarebbero persino costrette a chiudere.
Dulcis in fundo, con la regionalizzazione le scuole paritarie diventano intoccabili, come già succede in Sicilia (regione autonoma) dove, dal 2018, nonostante circa 40 istituti siano indagati dalla Finanza (e non solo) il Ministero non può togliere loro il titolo a fornire diplomi riconosciuti dallo stato perché l’Assemblea Regionale Siciliana (interpellata da mesi) non fornisce il placet.
Di più, la Scuola farà da apripista. Incardinando per la prima volta la regionalizzazione del personale (cosa mai successa prima in nessun altro settore), questo Governo aprirà la strada alle gabbie salariali per tutti i settori ‘concorrenti’, a cominciare dalla Sanità, riducendo parallelamente la spesa pubblica per tutti i servizi e le istituzioni del Meridione.
Giù la maschera. Lo sciopero sarà l’occasione per chiamare tutti i parlamentari che s’occupano di scuola (e non solo) sotto il ‘palazzo’ per verificarne, senza infingimenti, le effettive posizioni.
No a differenziazioni di qualità fra le regioni! No alle gabbie salariali! No all’esame di stato invalsizzato! No all’alternanza scuola-ignoranza! I partiti del Governo pentalegato avevano promesso di abrogare la mala-scuola renziana. Invece hanno conservato la chiamata per competenze e lo strapotere dei dirigenti sull’utilizzo degli insegnanti, il ‘bonus’ discrezionale, un organico ‘potenziato’ senza futuro né limiti alle supplenze, ed intendono peggiorare di molto la già gravissima situazione creando un’istruzione pubblica di serie ‘a’ e serie ‘b’ a seconda della ricchezza regionale, con contratti separati per docenti ed ata secondo le aree geografiche. Hanno anche voltato le spalle ai precari, cancellando 42.000 assunzioni col previsto assorbimento dell’organico ‘potenziato’. E del contratto scaduto a fine dicembre 2018 neppure si parla.
Stefano d’Errico
(Segretario Nazionale Unicobas Scuola & Università)