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CRITICA LIBERTARIA DEL LIBERALISMO, DEL LIBERISMO E DELLA VERGOGNA DELL’ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO

Qual è il confine fra liberalismo e liberismo? Ce ne fornisce un’idea una ricorrente boutade liberista che interessa ancora una volta la scuola. La proposta di abolire il valore legale del titolo di studio, avanzata da una figura importante del liberalismo come Luigi Einaudi nel 1955 e poi copiata dai fautori del “Piano di rinascita nazionale” della P2, persino da qualche estremista di sinistra operante alla fine degli anni ’70 all’interno del “Coordinamento Nazionale Lavoratori della Scuola” (antesignano dei Cobas), da Berlusconi e Lega e infine comparsa prima nel programma di Berlusconi e poi in quello di Beppe Grillo.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio, come sostiene Einaudi,
servirebbe a contrastare il ‘monopolio delle professioni’: «Il valore legale del titolo di studio ha, nel sistema
napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i
diplomati in medicina e veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati
in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di
ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo». Tutto ciò instaurerebbe un:
«Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi
interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così
piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor
commercialista, il geometra quello dell’agronomo ed il contadino attento e
capace quello del diplomato in viticultura ed enologia». Ora, tralasciando la ratio e
i «due o tre casi interessanti la salute e la incolumità
pubblica»
(medici o veterinari, dentisti o ingegneri), che Einaudi stesso però elenca
comunque nel primo periodo, come se la salute pubblica fosse un optional, nonché
il fatto che anche falsi commercialisti, falsi geometri e falsi enologi (per
Bacco!) possono fare seri danni, conserviamo alla discussione la sua chiave
teorica. Il punto è che proprio il liberalismo è sempre stato il difensore delle
professioni, di quelle professioni che non a caso si chiamano liberali. Quindi
l’artefice degli ordini professionali. Senza l’apporto politico del liberalismo
non esisterebbero, ad esempio, il segreto professionale (allargato anche alla
professione giornalistica), il diritto di difesa, né l’autonomia professionale,
l’autorità peritale, ovvero il diritto delle professioni di autoamministrarsi,
incardinata sul fatto che non può certo essere chiunque a valutare se l’azione
di un professionista rientra o meno negli standard deontologici di quella stessa
professione. Questo semplicemente perché non ne conosce la materia. In assenza
di queste regole, lo stato non solo non garantirebbe la salute e la vita dei
cittadini, ma sarebbe autorizzato ad entrare in una sfera che non gli compete,
eliminando, ad esempio, anche la libertà d’insegnamento, uno dei fondamenti
dello stato di diritto, ovvero dello stato liberale. Tanto che, anche quando è
costretto ad entrarvi, per equità e raziocinio lo stato stesso (con la
magistratura) è costretto a rivolgersi a chi è professionalmente formato per
poter dirimere ‘in scienza e coscienza’ eventuali contenziosi legali a carattere
professionale. Parliamo della ‘salute pubblica’. I contenziosi disciplinari sono
addirittura demandati agli ordini. Così come esiste una netta separazione fra
stato e chiesa, nell’ordinamento liberale si determina anche un confine
altrettanto marcato relativamente all’esercizio della ricerca, dell’insegnamento
e delle scienze, ché altrimenti si sconfinerebbe nel totalitarismo. Nel sistema
liberale, non esistono per definizione ‘pedagogia di stato’ e ‘scienza di stato’
(tipiche, ad esempio, del nazismo e dello stalinismo). È semmai il liberismo,
sostituendo a qualsiasi etica pubblica le mere ‘leggi di mercato’, che tenta
l’eliminazione di qualsiasi barriera deontologica e qualsiasi libertà. Il
liberismo vuole mettere a servizio le professioni, vuole poter retribuire un
medico col salario dell’infermiere, un avvocato col salario della segretaria
esecutiva, e non vuole nessun ‘inciampo’ contrattuale, a cominciare da quelli
che legano le retribuzioni ai titoli di studio richiesti. Il liberismo vuole
l’abolizione degli ordini professionali, e la casta economico-politica liberista
ha in odio la libertà professionale dei giornalisti. Ma chi conosce un minimo di
storia delle istituzioni, sa bene che l’eliminazione di qualsiasi vincolo
produce un rafforzamento dello stato e del potere esecutivo sulla società
civile. L’esatto contrario della logica liberale, che ha creato questi vincoli
proprio per garantire il controllo dei poteri dello stato (che non a caso
vengono separati e non subordinati) e la libertà della società civile. Il
liberismo vuole abolire ogni vincolo, e naturalmente, per poterlo fare, cerca di
usare lo stato a suo uso e consumo. Però il principale strumento che ha nella
lotta col sistema liberal-democratico, come abbiamo visto, non è quello di
‘legiferare’ ed imporre vincoli, bensì, al contrario, quello di delegificare
imponendo la deregulation. Il liberismo è la degenerazione, se non il
contro-senso, per chi crede nel liberalismo. Ma tutto ciò dovrebbero
innanzitutto gridarlo a gran voce proprio i liberali, non chi come me liberale
non è. Per me l’utopia liberale è assolutamente fallace. La crisi della
‘democrazia reale’ lo dimostra da tempo. L’utopia liberale, come in passato
quando per paura del socialismo ha favorito il fascismo, dimostra il suo limite
anche quando si trasforma nell’utopia negativa liberista. Quando l’originario
uso ‘discreto’ dello stato diviene sistema statuale allo stato puro (cosa
peraltro connaturata all’essenza dello stato stesso). Allora lo stato,
‘prosciugandosi’, getta la maschera, eliminando i diritti ed il welfare, ritorna
ad essere quel che è sempre stato, ciò per cui è stato creato: organismo nato
quando un popolo ha occupato le terre di un altro ed ha creato lo sfruttamento,
essendo lo stato l’origine della divisione della società in classi (e per questo
non potendosi usare neanche temporaneamente, come sostiene il marxismo, a fini
di libertà ed eguaglianza). Lo stato liberista non effettua neppure
intermediazioni: garantisce solo le classi dominanti (ovvero i padroni del
‘mercato’). È solo in linea puramente idealistica e speculativa che il
liberalismo, quando si trasforma in liberismo, può affermare di voler “ridurre
l’autorità nei limiti della necessità”. Infatti, non avendo al suo interno
neppure l’ombra dell’idea dell’eguaglianza economica, il liberalismo è di fatto
autoritario, poiché obbliga alla disparità ed i limiti dell’autorità divengono
non quelli della necessità quanto invece i dettami utili a mantenere un iniquo
status quo di sfruttamento. Per quanto attiene al favore che in tempi
(fortunatamente) andati la proposta di eliminare il valore legale del titolo di
studio ha ottenuto anche in una certa ‘estrema’ sinistra, va detto che il
casus del qui pro quo attiene ad un massimalismo di segno opposto (ché quello di
Einaudi è estremismo ‘mercatista’, risultante però da un abbaglio ideologico che
lo ha indotto a cercare di eliminare autonomia e specificità delle libere
professioni perché fossero ‘più libere assai’). Qualche bordighista, piuttosto
che qualche anarcoide, avevano preso invece un abbaglio ‘egualitarista’,
intendendo abolire così (si pensi un po’) le differenze di livello e peso
sociale introdotte dallo stato liberale fra lavoro manuale e lavoro
intellettuale. Qui s’apre un discorso più complesso. Effettivamente le
professioni artigiane andrebbero tenute nel medesimo conto delle libere
professioni. Vista la penuria, nonché l’alta specializzazione raggiunta già nel
medio evo, mai come oggi si dovrebbe finalmente capire come la qualità della
falegnameria seria, del fabbro, piuttosto che quella del restauratore, nonché
del meccanico e di altri, rappresenti, checché ne dicano ancora una volta i
‘liberali’, un valore storico e sociale che non ha nulla invidiare a quella
dell’avvocato o dell’ingegnere. Ma nessuno può negare che anche le professioni
artigiane sono connaturate a pratica ed insegnamenti molto sofisticati, che
peraltro necessiterebbero di molta tutela anche sul piano istituzionale. Il
percorso inverso, quello di eliminare tutti i titoli, come potrebbe fare un
qualsiasi ‘polpottiano’ in erba, non ha nulla di libertario o di ‘comunista’: è
solo ridicolo. A me tutto ciò appare scontato, perché non ho avuto ‘maestri’
come Einaudi, bensì come Camillo Berneri. È vero che fu lui a sostenere che gli
anarchici sono “i liberali del socialismo”, perché li accomuna ai liberali la
irriducibile difesa della libertà. Cionondimeno Berneri era ben consapevole che
per gli anarchici la difesa della libertà non è tutto. L’anarchismo ha una
diversa radice, rispetto al liberalismo. Innanzitutto in ordine alla questione,
fondamentale, dell’antistatalismo (anche in contrapposizione al marxismo). Ma
ancor di più perché l’anarchismo è anche socialista, perché la ‘libertà’ senza
pari condizioni, senza eguaglianza ed equità, semplicemente non è libertà. Sul
fronte opposto, senza contraddizione alcuna, gli anarchici possono ben dirsi
“ala estrema del socialismo”, dal momento che rifiutano non solo lo stato
(portando a radicali conseguenze la negazione dell’autoritarismo ed eliminando
la struttura che rigenera automaticamente la divisione di classe anche quando si
chiama ‘stato socialista’), bensì perché sono giustamente convinti che l’
‘eguaglianza’ non è eguaglianza in assenza di libertà. L’utopia liberale
intenderebbe garantire la libertà senza l’eguaglianza, l’utopia del socialismo
autoritario invece l’eguaglianza senza la libertà. L’anarchismo, idealmente, si
colloca al tempo stesso al centro e su di un altro piano, rispetto al marxismo
ed al liberalismo e non soggiace a nessuno dei due. L’anarchismo vola alto,
collocandosi in posizione equidistante tra marxismo e liberalismo, perché, pur
nascendo dal medesimo crogiuolo e partendo dalle stesse basi storico-politiche,
è stato in grado di superarli entrambi. L’anarchismo è per l’eguaglianza, ma ha
radici che gli fanno comprendere come questa verrà automaticamente negata anche
(e soprattutto) fosse ottenuta tramite la dittatura: in sostanza, l’eguaglianza
senza la libertà è impossibile. La critica bakuniniana al Marx politico, rende
evidente come la pianificazione autoritaria in campo politico e statuale (la
dittatura), nonché in campo economico, porta con sé per forza di cose la
creazione di una nuova classe di sfruttatori che si appropria del bene comune
(capitalismo di stato), piegandolo ed usandolo ai propri fini. L’anarchismo è
quindi per l’eguaglianza, ma sa che non vi si potrà mai pervenire se non con un
processo unitario, complesso e paritetico fra diritti civili e diritti sociali.
L’anarchismo è per la libertà, ma gli è del tutto evidente come questa non abbia
senso se le condizioni economiche fra gli uomini sono dispari. Non può esistere
libertà nella miseria, non può esistere libertà se le condizioni – di partenza e
permanenti – avvantaggiano l’uno e condannano l’altro. Non si può giocare una
partita di libertà con i dadi truccati del liberismo economico, delle sole leggi
di mercato deificate e deregolamentate. L’anarchismo è per l’eguaglianza nella
libertà, così come per la libertà nell’eguaglianza, senza sconti, senza se e
senza ma e soprattutto senza inutili e controproducenti machiavellismi. La sua
alterità – si sarebbe tentati di dire, in burla del marxismo, già
“scientificamente provata” alla luce degli esiti catastrofici che il potere
bolscevico ha immediatamente prodotto ancora nel ’21 – è soprattutto etica. Ma
non si tratta certo di una ‘religione’ dell’etica. L’anarchismo è l’unico
movimento politico esistente che non prevede lo stato e la ragion di stato,
l’unico che nasce per subordinare la politica all’etica (mentre tutte le altre
scuole agiscono esattamente al contrario), ma lo fa per fini eminentemente
pratici e di senso comune. Ha così compreso l’essenza del dominio, che conosce
perfettamente le radici dello sfruttamento e le collega giustamente sia
all’ineguaglianza che all’assenza di libertà. Conosce perfettamente le radici
dell’oppressione, dell’autocrazia, del nazionalismo, dell’oscurantismo, della
negazione dell’umanità e dell’individuo in ogni sfera e campo sociale, e per
questo le collega giustamente sia all’assenza di libertà che all’ineguaglianza.

Stefano d’Errico (Segretario Nazionale Unicobas
Scuola & Università)