di Stefano Lonzar
La scuola in Italia appare sempre più una scuola di classe ed elitaria oltreché profondamente autoritaria, riprova ne sono i disegni di legge approvati il 18 settembre dall’attuale esecutivo che riguardano “l’istituzione della filiera tecnologico-professionale” e la “revisione della valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti”. Se da una parte il voto in condotta numerico sarà ripristinato anche alla scuola media e assumerà più peso durante tutto il percorso scolastico, dall’altra continua quel processo di depauperamento della scuola pubblica, nei contenuti e nelle forme, in ottica bipartisan, avviato col nuovo millennio dal duo Berlinguer-Zecchino, proseguito con i pacchetti delle ministre Letizia Moratti, Mariastella Gelmini, con la “Buona scuola” di Matteo Renzi e i provvedimenti del governo Draghi. L’ondata riformistica abbattutasi sulla scuola italiana in questo ventennio non accenna a placarsi (con nostro sommo disappunto visti i risultati!); appena ultimato il primo quinquennio di riforma dei percorsi professionali introdotta dalla Buona Scuola, eccone arrivare un’altra, questa volta targata Valditara. Il disegno di legge che riprende in forme peggiorative alcune idee già circolate in epoca morattiana, interesserà, al momento come sperimentazione, il 30 per cento degli istituti tecnici e professionali; il percorso di studi durerà 4 anni, con la conseguente decurtazione della quota oraria riservata agli insegnamenti disciplinari, a favore del potenziamento di quello che potremmo definire un vero e proprio “addestramento al lavoro”, caratterizzato da percorsi poco qualificati, che consentiranno alle imprese di utilizzare in modo flessibile e intercambiabile il “capitale umano” che esce da queste scuole. Inoltre, la riduzione di un anno di scuola non avrà ricadute negative solo sugli studenti ma, accompagnata dalla probabile revisione dei curricoli, causerà anche la perdita secca di posti di lavoro tra i docenti ed il personale ATA. Al termine del quadriennio tecnologico-professionale lo studente avrà due possibilità: o sostenere un esame finale, per ottenere un attestato che lo introduca precocemente nel mondo del lavoro (e qui sembra proprio di essere tornati indietro nel tempo, nell’Italia preriforma del 1963, con la scuola dell’avviamento professionale destinata ai giovani appartenenti alle classi sociali meno agiate, che non si potevano permettere un percorso lungo di studi e avevano la necessità di inserirsi rapidamente nel mondo del lavoro) oppure chi ha ottenuto risultati migliori potrà accedere alla formazione biennale presso l’ITS Academy, cioè la nuova denominazione degli Istituti Tecnici Superiori, ma non all’università. Una discriminazione inaccettabile, poiché costringe i ragazzi ad anticipare alla fine delle scuole medie la scelta sul loro percorso scolastico e formativo che, in caso di decisione a favore della filiera tecnico professionale, comporta, appunto, l’esclusione da un futuro universitario a meno che lo studente in questione non decida di frequentare il quinto anno tradizionale e sostenere gli esami di stato. Un altro aspetto estremamente critico di questo disegno di legge (in quanto potrebbe rappresentare un pericoloso precedente per altri percorsi di istruzione) risiede nel ruolo da protagonista assegnato all’Invalsi. L’accesso diretto agli ITS, per i percorsi sperimentali di Istruzione e Formazione Professionale, infatti, sarà certificato dagli esiti delle rilevazioni degli apprendimenti svolte dall’ente di ricerca e questo, oltre a mettere in discussione il valore legale del titolo di studio, centrale nel nostro sistema di istruzione e attestato ancora oggi dagli esami di stato, attribuisce una funzione all’Invalsi, che travalica quella attribuitagli dalla legge stessa, ovvero rilevare gli aspetti valutativi e formativi del sistema scolastico e non certo quello dei singoli studenti. Sembrano quindi materializzarsi i rischi e i pericoli denunciati dai settori più attenti della scuola pubblica italiana sulla reale entità dell’Istituto in questione: espropriare i docenti di una delle funzioni più importanti e caratterizzanti la professione, la valutazione, frutto del dialogo educativo, dell’interazione tra umani e affidarla, invece, a delle batterie di test, elaborate, al momento, da esperti del settore e, nel futuro prossimo, quasi sicuramente dall’intelligenza artificiale. Ci sono ancora altri elementi che fanno capire come, nella filiera tecnologico-professionale istituita di recente, si tenti di realizzare la fusione tra scuola e impresa, come avvenga il passaggio di un segmento del nostro sistema di istruzione da mano pubblica a operatori privati: concepire tale percorso di formazione su base regionale o provinciale, a seconda delle esigenze immediate delle imprese di un certo territorio; ribadire più volte che non ci dovranno essere costi aggiuntivi per la finanza pubblica e che semmai si ricorrerà a finanziamenti privati; stipulare contratti di prestazione d’opera per attività d’insegnamento con soggetti provenienti dal mondo del lavoro e delle professioni portatori di una logica aziendalistica e d’impresa che poco hanno a che spartire con l’idea di istruzione che deriva dalla Carta Costituzionale; estendere, anziché ripensarlo, l’attuale modello dei PCTO (ex alternanza scuola lavoro) fino a 400 ore e addirittura introdurre l’apprendistato di primo livello per gli studenti di questi istituti. Insomma, la sperimentazione di Valditara inaugura un nuovo modello di formazione-lavoro, fondato sul protagonismo dell’impresa formatrice, impone la logica dell’occupabilità precoce e prefigura un nuovo regime salariale, basato sulla flessibilità dell’impiego e sulla contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro. Fa il paio con questo disegno di legge l’altro, approvato dal Consiglio dei ministri lo stesso giorno, sulla “revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti”. Nato sull’onda emotiva prodotta da una serie di episodi di violenza che hanno avuto luogo nelle scuole, il DdL sembra non uscire dalla logica emergenziale, limitandosi all’inasprimento delle sanzioni disciplinari. Se la condotta di un alunno agli scrutini finali sarà valutata con un cinque, l’alunno potrà ripetere l’anno scolastico o potrà non essere ammesso agli esami finali del ciclo d’istruzione; mentre nella scuola secondaria di secondo grado se la valutazione fosse pari a sei lo studente, per essere ammesso all’anno successivo, dovrà produrre un elaborato su materie inerenti alla cittadinanza attiva e solidale. Anche per quanta riguarda la sospensione dalle lezioni il DdL prefigura un inasprimento, arrivando a disporre, per quelle che superano i due giorni, l’affidamento dello studente a strutture convenzionate per lo svolgimento di attività sociali, che potranno essere prolungate anche dopo il rientro a scuola; un trattamento che somiglia molto a quello riservato a chi è condannato ad una pena alternativa al carcere. Ancora una volta il Ministero pretende di affrontare fenomeni reali di disagio sociale, che inevitabilmente si manifestano anche nella scuola, in maniera semplicistica e immediata, ma inefficace, perché basata su una logica esclusivamente repressiva. Il modello di Valditara, basato su punizioni e sanzioni, è estraneo alla natura stessa dell’istituzione scolastica e non lo possiamo assolutamente condividere. È necessario, invece, che la scuola ritorni ad essere luogo di emancipazione e di riscatto sociale, dove i deficit di conoscenze, competenze e comportamenti siano rimossi, non semplicemente certificati o, peggio ancora, puniti, consolidando così le disuguaglianze. Ma per fare ciò occorrerebbe necessariamente ripensare la scuola, investire in essa. I finanziamenti del PNRR potevano rappresentare un’ottima opportunità in questa direzione; si è preferito, invece, imboccare la via della digitalizzazione forzata fine a se stessa che, spesso, non tiene conto neanche delle reali necessità degli istituti presenti sui territori, dei lavoratori che vi operano e degli studenti che le animano.