La Confederazione Italiana di Base (CIB) UNIcobas, della quale è parte l’AltrascuolA Unicobas, in campo scolastico promuove il riconoscimento della libertà d’insegnamento dei docenti e della libertà di apprendimento degli studenti per un pieno riconoscimento della scuola come istituzione pubblica chiamata a promuovere i saperi, a partire da quelli critici, umanistici, scientifici. L’’Unicobas nel 2009 ha scritto il disegno di legge sul nuovo stato giuridico dei docenti presentato alla Camera e al Senato dall’Italia dei Valori, che lo stesso partito ora sta mettendo sciaguratamente in forse a causa della politica pan-impiegatizia del Dipartimento Lavoro gestito da Maurizio Zipponi che, stando alle dichiarazioni dello stesso, prevede un unico comparto contrattuale per il pubblico impiego comprendente addirittura anche l’Università. In ogni caso, questo ddl contiene il nostro più importante progetto, a cominciare dalle Norme per l’istituzione di un’area contrattuale specifica per il comparto della scuola nonché del Consiglio superiore della docenza, e altre disposizioni in materia di organizzazione scolastica come l’elettività dei presidi e l’anno sabatico d’aggiornamento. E’ per noi dell’’Unicobas una scelta obbligata quello di cambiare radicalmente lo stato giuridico dei docenti e definire il ruolo degli Ata. Questa scelta nasce da un’attenta analisi della situazione della scuola pubblica italiana, delle dinamiche intercorrenti tra i diversi attori della stessa e, in particolar modo, dello statuto e della natura professionale dell’attività docente che, nell’attuale situazione normativa, risulta particolarmente penalizzata e deprezzata, con la conseguenza di un sempre più scarso riconoscimento sociale. Nella prima fase del nostro Stato unitario, sono stati adottati, dai governi, cinque stati giuridici degli insegnanti e tutti, tranne quello del 1906, sono sempre stati collegati a processi più generali di riforma della scuola; hanno, in un certo qual senso, portato con sé un’idea di scuola, una filosofia del processo d’insegnamento e di apprendimento. Nel passato più recente, invece, è stato favorito un lento ma progressivo processo di burocratizzazione della professione docente, caratterizzato da sempre più frequenti imposizioni amministrative e gerarchiche. Tutto ciò è frutto di indebite invasioni di campo, anche da parte delle organizzazioni sindacali tradizionali che hanno debordato persino sulla formazione iniziale e in itinere (come nel caso del contratto del ’95, «a punti» legati all’aggiornamento), nonché di una costante latitanza degli organi legislativi e di una sorta di subordinazione delle stesse associazioni professionali nei confronti dei sindacati. In questi ultimi vent’anni il Parlamento ha approvato, infatti, una serie di leggi che hanno inciso profondamente sulla condizione degli insegnanti, considerandoli, però, essenzialmente «indistinti dipendenti pubblici», alla stregua di tutti gli altri impiegati dello Stato: la legge 29 marzo 1983, n. 93, nota come legge quadro sul pubblico impiego, a seguito della quale i docenti furono inseriti nel 6° e 7° livello impiegatizio e la funzione docente perse ogni specificità e si recise definitivamente il legame con la docenza universitaria; la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, sul pubblico impiego, che ha dato il via alla privatizzazione del rapporto di lavoro, distinguendo fra ciò che rimaneva riserva di legge e ciò che diventava materia di contrattazione. Il rapporto di lavoro della docenza universitaria non veniva invece privatizzato, come avvenuto per la Scuola con la diretta emanazione di tale norma: il decreto legislativo n. 29 del 1993. La legge 15 marzo 1997, n. 59, con cui è stata istituita l’autonomia scolastica e si è attribuita la dirigenza ai capi d’istituto, separando la loro contrattazione dal restante personale della scuola nega di fatto la caratteristica di lavoratore non subordinato attribuita ai docenti dalle norme sulla libertà d’insegnamento. Nell’università persiste invece, giustamente, la qualifica di preside di facoltà, quale primus inter pares.Sulla scuola gravano i dettami del decreto legislativo n. 29 del 1993, recepiti con il contratto del 1995 che impongono l’eliminazione degli automatismi di anzianità (con la trasformazione residuale e in via di sparizione degli scatti biennali in «gradoni» sessennali e settennali, in attesa della definitiva eliminazione degli stessi prevista ai sensi del medesimo decreto legislativo).Il citato decreto legislativo impone la riconversione professionale d’ufficio, così che un docente di laboratorio di ceramica di istituto tecnico professionale lo si è potuto «riciclare» su una cattedra di scienze della terra; un insegnante di educazione tecnica delle scuole medie, con la sparizione di quell’insegnamento e con la minaccia della mobilità provinciale e interprovinciale, è stato «adattato» per il sostegno, con buona pace dei precari specializzati lasciati a casa e dell’integrazione dei disabili. Si è scelto di operare come su dei travet, spostando di cattedra in cattedra gli insegnanti come se si trattasse di comandarli ad attendere ad una nuova pratica cartacea. In un’epoca nella quale, sull’altare della riduzione della spesa, si gioca a dadi con le carriere dei docenti – tramite tagli, riconversioni e accorpamenti di classi di concorso, attraverso un sostanziale spreco delle professionalità acquisite e una mobilità di cattedra che non tiene conto né della formazione culturale, né delle competenze maturate – è, peraltro, la dignità della scuola nel suo complesso a venire pesantemente colpita.È stata poi introdotta la cassa integrazione e la licenziabilità per esubero; col placet delle organizzazioni sindacali tradizionali e in senso aziendalista, il preside è stato trasformato in dirigente scolastico e al tempo stesso in «datore di lavoro», aprendo la strada allo smantellamento dei concorsi pubblici e alla chiamata diretta per le assunzioni prevista dalla proposta di legge di iniziativa dell’onorevole Aprea, attualmente all’esame della Commissione cultura della Camera (A.C. 953).Il «dirigente», inesistente all’università (ove vigono solo, anche nel caso dei presidi di facoltà, qualifiche elettive), è stato trasformato in «datore di lavoro».È stato eliminato persino il ruolo, assegnando al personale assunto stabilmente «incarichi a tempo indeterminato», una dizione utilizzata in passato tipicamente con riferimento al personale precario, a sua volta ancor più instabile perché incaricato a tempo determinato.A tale proposito riteniamo necessario stabilire tramite specifiche disposizioni legislative: l’uscita dell’intero comparto scuola dal pubblico impiego (ponendolo fuori dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 165 del 2001), il recupero degli automatismi salariali biennali d’anzianità come dato di garanzia sull’esperienza (sulla scorta di quanto avviene nella Repubblica federale elvetica, ove gli automatismi salariali d’anzianità sono addirittura annuali e tale trattamento è riservato solo agli insegnanti) e del ruolo come elemento di protezione e affermazione della libertà d’insegnamento, nonché della specificità professionale della funzione docente; il conseguente ritorno ad un contratto di natura non privatistica, specifico per l’intero comparto scuola (docenti e personale ATA), ristabilendo la possibilità di una vera rivalutazione (ad esempio tramite l’incremento dell’indennità di funzione docente) dello stipendio base degli insegnanti, altrimenti inchiodato, per legge, alle stime inflative dell’ISTAT e all’inflazione programmata dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il perverso meccanismo disposto dal decreto legislativo n. 165 del 2001 rende altrimenti impossibile anche il solo avvicinamento alla media retributiva europea, rispetto alla quale, tenuto conto del costo della vita, i docenti italiani si collocano ormai all’ultimo posto; il ruolo unico docente a parità di orario di lavoro (18 ore) e retribuzione, per ogni ordine e grado di scuola, con apposita indennità di funzione docente; il ripristino degli organi di rappresentanza previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 31 maggio 1974, n. 416, quali i consigli scolastici distrettuali e provinciali, nonché del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, che con l’entrata in vigore della legge n. 59 del 1997 sull’autonomia scolastica, pur rimanendo in funzione, sono fortemente depotenziati e non più rieletti dal lontano 1997; lo sdoppiamento delle figure «gestionali»: direttore amministrativo (oggi già presente) per il piano gestionale-contabile e preside, eletto ogni tre anni nell’ambito del collegio dei docenti fra quanti abbiano almeno 5 anni di sevizio in ruolo e titolo di frequenza relativo ad un apposito corso propedeutico; passaggio degli attuali dirigenti ai ruoli ispettivi (assolutamente sotto organico: 300 circa contro i 3.000 circa della Francia); la costituzione di un organismo di autogoverno indipendente dall’amministrazione e autonomo dai sindacati, con la funzione di dare evidenza, identità e tutela alla professione docente: il Consiglio superiore della docenza, eletto unicamente dagli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, con consigli a livello regionale, entrambi coadiuvati da esperti nominati dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dalle università.Il Consiglio superiore della docenza nasce con il compito di definire gli standard professionali, di sovrintendere alla formazione iniziale e in servizio, di intervenire sulle norme di accesso all’insegnamento, di gestire l’albo professionale, di statuire e far rispettare il codice deontologico.Gli standard professionali devono descrivere che cosa devono sapere e saper fare gli insegnanti. Essi sono l’elemento fondante dell’identità professionale e costituiscono la base indispensabile per la formazione iniziale e in itinere, per il reclutamento, per la valutazione e l’autovalutazione dei docenti. Vanno individuati standard generali della professione e standard specifici per le diverse aree disciplinari e per i diversi gradi scolastici, standard per la formazione iniziale, per il reclutamento e il superamento del periodo di prova.Insieme agli standard, il codice deontologico favorisce la costruzione dell’identità professionale, aumenta il senso di appartenenza alla propria comunità professionale e scientifica, costituisce esso stesso un importante riferimento ai fini della valutazione e dell’autovalutazione, nonché dell’attività educativa, e contempera l’autonomia professionale con i bisogni degli allievi e con i più generali interessi della società. Per essere efficaci, sia gli standard che il codice deontologico devono essere aperti alle sollecitazioni della concreta pratica professionale, della ricerca, della cultura e della domanda sociale; devono essere flessibili e dinamici, cioè continuamente aggiornabili e aggiornati, favorendo il confronto studenti-docenti sul piano formativo, ma ristabilendo il rispetto dei ruoli: ambito metodologico- didattico di stretta competenza degli insegnanti senza (dannose e inqualificabili) intromissioni; ambito formativo che attiene al rispetto fra i ruoli.S’impone un’inversione di marcia per abbandonare la concezione burocratica dell’identità docente che determina: stipendi modesti, poca preparazione dei docenti, assenza di valutazione del merito individuale, scarsa stima da parte di famiglie e studenti. La strada da seguire è quella che porta al riconoscimento della professione: conoscenza verificata e in continuo aggiornamento della materia insegnata, stipendio parificato alle fasce superiori europee, riconquistata dignità di funzione agli occhi di famiglie e studenti. Sorge la necessità di un profondo ripensamento in termini culturali e organizzativi di tutto il comparto scuola e, in particolare, del modo di intendere l’esercizio della funzione docente. La società del terzo millennio ha necessità di «professionisti della conoscenza» (knowledge workers) che facciano riferimento ai loro enti di rappresentanza e non alla burocrazia ministeriale. La professione docente è segnata da tre elementi: alta specificità del ruolo istruttivo ed educativo, autonomia e autoreferenzialità rispetto a valutazione e selezione dei professionisti che non vengono giudicati da altri enti, etica e deontologia elaborate fra gli operatori del settore. Il mondo della scuola possiede una particolarità rispetto al resto del mondo del lavoro. In esso si insegna e si apprende e non si tratta neanche di mera trasmissione del sapere, bensì si sviluppa e ricrea il sapere stesso, almeno per quanto attiene alle strategie dell’istruzione, dell’educazione e della formazione. Nella scuola non si costruiscono manufatti industriali, né si svolgono mansioni di tipo burocratico. Lo specifico prevalente è quello della funzione docente, che non è funzione d’impresa, né di tipo impiegatizio: proprio per questo l’assetto normativo e contrattuale attuale è assolutamente inadeguato. La Costituzione della Repubblica definisce scuola e università quali «istituzioni» (e la cosa non ha solo un rilievo terminologico, perché stabilisce una linea di demarcazione rispetto ai «servizi»), ma esse hanno due assetti contrattuali differenti: dell’università è stato creato un ibrido, dove i docenti hanno un contratto di natura pubblica e le altre figure lavorative un contratto privatizzato; nella scuola, invece, esiste solo la privatizzazione del rapporto di lavoro: la scuola, quindi, è stata trasformata in un «servizio» e i docenti in impiegati. Ma il momento dell’interazione metodologico-didattica non è affatto l’erogazione di un servizio; gli insegnanti non sono pompe di benzina e gli alunni non sono automobili di passaggio da riempire di nozioni. La figura del docente non è quella di chi attende ad un servizio, bensì quella di un ricercatore di percorsi formativi e culturali, e il titolo di studio non è un «atto dovuto», come la certificazione di un’analisi del sangue, bensì il risultato di un’interazione personale e didattica, di un percorso di vita e di ricerca. Proprio da questa innegabile constatazione sorge la necessità di un profondo ripensamento in termini culturali e organizzativi di tutto il comparto scuola e, in particolare, del modo di intendere l’esercizio della funzione docente. Nel disegno di legge, anche per il personale Ata, collaboratori scolastici, aiutanti tecnici e personale di segreteria, è riconosciuto, con il primo contratto utile successivo alla data di entrata in vigore, il ruolo di coadiutore educativo con riferimento alle attività esercitate dal medesimo personale relativamente alla sorveglianza degli alunni nonché alla gestione della sicurezza, della strumentazione informatica e dei laboratori.