di Stefano d’Errico (Segretario nazionale dell’Unicobas)
Si tratta di un problema assurto al livello di vera e propria emergenza democratica. Un problema centrale perché attiene alla democrazia effettiva, quella del lavoro, unica cosa temuta dal sistema: l’autoorganizzazione dei lavoratori. Un problema non a caso negato da tutte le forze politiche: chi ritiene centrale (e centralistica) la forma istituzionale di rappresentanza, crede che la società civile, l’associazionismo, i soggetti sociali, debbano venire conculcati e subordinati e che i sindacati debbano esistere unicamente come “cinghie di trasmissione” del mondo dei partiti. Ergo, i partiti – ognuno dei quali ha propri riferimenti sindacali o “pacchetti” di gestione negli stessi – si sono innanzitutto preoccupati di eliminare qualsiasi possibilità di successo per il sindacalismo libertario ed indipendente.Fino ad oggi, l’intera “sinistra” parlamentare – in primis la cosiddetta “area radicale” – pur sollecitata costantemente e direttamente, è stata del tutto connivente sull’esistenza in questo Paese di leggi sulla rappresentanza sindacale che, in particolare nel pubblico impiego, negano ogni pur minimo senso della democrazia e del diritto.Sino al ’97 le norme richiedevano alle organizzazioni sindacali il raggiungimento della soglia del 5% dei voti validi nelle elezioni di categoria (Consigli di Amministrazione dei Ministeri e Consigli della Pubblica Istruzione, nazionale e provinciali, per la Scuola). Nel periodo intercorrente fra un’elezione e l’altra il calcolo veniva, con un tetto analogo, operato sui sindacalizzati. Il raggiungimento del 5% su lista nazionale significava per le organizzazioni di comparto poter sedere al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto di categoria e per le contrattazioni decentrate di primo livello; una soglia analoga su lista provinciale garantiva la partecipazione alle trattative decentrate locali o di singola “unità produtiva”.La legge “Bassanini” del Novembre ’97 (votata anche dai Verdi e da Rifondazione Comunista, prima che si avviasse la scissione del PdCI), ha stravolto ogni regola. Innanzitutto, con un meccanismo elettorale farsesco che impedisce la presentazione di liste nazionali, imponendo unicamente liste decentrate e delegando alle OOSS concertative la scelta di rito. Così, ad esempio nella Scuola (12.000 sedi centrali), CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda impongono la presentazione di una lista per istituto, e meno liste si presentano, meno voti si possono raccogliere.Vengono perciò elette “Rappresentanze Sindacali Unitarie” unicamente nei luoghi di lavoro, titolate a trattare solo su questioni minimali, sulla falsa riga di contratti nazionali e provinciali decisi dai rappresentanti nominati dalle burocrazie sindacali senza alcun controllo elettivo. Tanto i firmatari del contratto nazionale hanno comunque titolo alle contrattazioni decentrate (anche a voti zero!). Nel privato, peraltro, si sono dotati della riserva del 33%, percentuale garantita a CGIL, CISL e UIL indipendentemente dai risultati elettorali.Si rende praticamente impossibile alle organizzazioni nuove e non concertative, alle quali è negato a priori ogni strumento di sostegno (persino i permessi sindacali), la competizione con le vecchie strutture confederali, che possiedono nel pubblico impiego un esercito di circa 5.000 “distaccati”. Inoltre alle OOSS “non rappresentative” è interdetta anche la convocazione di assemblee in orario di servizio, di modo che non possano farsi campagna elettorale né trovare i candidati ed i sottoscrittori necessari a presentare le liste. La cosa è persino ridicola, visto che la somma delle firme richieste per validare le liste raggiunge numeri strabilianti (nella scuola occorrerebbero 65.000 presentatori, più dei voti richiesti per raggiungere il 9.5% e più di quanto sia necessario per proporre al Parlamento una legge di iniziativa popolare).Si tratta di numeri congrui per le singole unità amministrative (2% degli aventi diritto), ma assolutamente improponibili nell’ottica di una sommatoria nazionale. Sarebbe come se – nelle elezioni politiche – i partiti fossero obbligati a presentare una lista per ogni seggio elettorale, dovendo così raccogliere almeno 600.000 firme per coprire tutto il territorio nazionale.In realtà diventerebbe imbarazzante per CGIL, CISL e UIL competere ad armi pari, come le regole democratiche invece imporrebbero. Con elezioni nazionali significherebbe passare dal monopolio al pluralismo ed essere, in più, costrette a far scegliere direttamente dai lavoratori anche le proprie delegazioni trattanti.Ma il marchingegno illiberale non si conclude qui. Al fine di favorire i sindacati pronta-firma, è stato inventato un meccanismo ulteriore, assolutamente indecente. Si tratta della cosiddetta “media”: il 5% non viene infatti calcolato più sui voti o sugli iscritti, ma facendo media fra i due parametri. In tal modo la soglia sul dato elettorale sale automaticamente, dovendo i sindacati nuovi compensare la ovvia carenza di iscritti a fronte di quanti esistono da almeno quarant’anni. Se si fosse adottato qualcosa di simile per accedere al Parlamento si sarebbe gridato al colpo di stato, anche perché così non si consentirebbe di fatto la nascita di alcun nuovo partito. Nessuno accetterebbe mai il computo spurio fra voti ed iscrizioni elevato a regime. Significativo è che il 10% dei sindacalizzati (35%) equivale alla metà esatta del 10% sui votanti (70%), utile ad un sindacato di nuova formazione (e se non il 10%, sarà l’otto o il 9%). In tal modo, CGIL, CISL e UIL, che in decenni si sono garantite comunque il 10% dei sindacalizzati, resterebbero “rappresentative” anche qualora non raccogliessero voti!I sindacati che non raggiungono tali folli parametri vengono privati di ogni diritto e spazzati via persino dal piano decentrato, anche se, come l’Unicobas Scuola, possiedono comunque il 10% dei voti nelle elezioni per il Consiglio Scolastico Provinciale ed il 5% delle deleghe nell’ambito di numerose province – come a Roma dove siamo il doppio di UIL e Gilda – e regioni. Un sindacato può anche avere il 60% delle deleghe su base provinciale e non essere ammesso a nessuna trattativa decentrata. In Italia si dibatte molto di federalismo, ma il federalismo viene espunto dalla democrazia del lavoro (1). Una norma del genere, traslata in politica, avrebbe come effetto per i partiti che non possedessero da Canicattì a Bolzano un quorum nazionale calcolato sul 5% di media fra voti ed iscritti (sic!), non solo l’esclusione dal Parlamento, ma anche da ogni consiglio regionale, provinciale, comunale o municipale e, di concerto, da ogni permesso per fare propaganda, manifestare, tenere comizi ed ottenere qualsivoglia rimborso elettorale, visto che in campo sindacale viene negato qualsiasi diritto, anche quello d’affissione. Altro che par condicio !!! Eppure, in ambito sindacale, non si da luogo alla creazione di “governi” e non è quindi in gioco la “stabilità” dell’esecutivo. Un sindacato, al quale la Costituzione non richiede altro che uno statuto registrato, esiste per far valere i diritti dei rappresentati, non per promulgare leggi o leggine. Si ricorda che, differentemente, per entrare in Parlamento sono richieste percentuali ben più basse (dal 2 al 4%, ma solo sui voti validi), così come per aver accesso al finanziamento pubblico dei partiti (1%).Mentre in Europa sindacati come l’Unicobas hanno pieni diritti, nel “Bel Paese” non ci forniscono neanche di un’ora di permesso retribuito. In Francia, ad esempio, con un’analoga percentuale di voti riportata nelle elezioni professionali (vd. SUD Education) – i cui risultati la legge italiana oggi esclude per il calcolo della rappresentanza – avremmo 21 aspettative annue a carico dello stato. In Italia stiamo come nella Polonia dei tempi del generale Jaruzelskij, quando venne messa fuorilegge “Solidarnosc” o come nel Cile di Pinochet, con la differenza che sicuramente c’era meno ipocrisia.Come accennato, per paura che CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda perdessero ugualmente l’egemonia sindacale sul mondo dell’istruzione (retribuito al livello più basso del ventaglio europeo), all’Unicobas (ed ai sindacati di base) viene negato dall’Ottobre ’99 persino il diritto di tenere assemblee in orario di servizio in qualsiasi scuola (anche se abbiamo 50 iscritti con trattenuta alla fonte su 100 docenti). Finanche negli istituti dove, avendo presentato una lista, abbiamo una o più RSU elette. In aperta violazione di quanto stabilisce lo Statuto dei Lavoratori, che assegna la facoltà di indire assemblee in orario di servizio alle Rappresentanze singolarmente o disgiuntamente (RSA alle quali, per effetto del D.L.vo 29 / 93, sono subentrate le RSU con medesimi diritti). Questa vergogna ennesima, vera e propria opera di regime statuita per contratto dalle OOSS firmatarie in pieno conflitto d’interessi (), è stata sanzionata dalla magistratura con almeno 12 sentenze di condanna per comportamento antisindacale in capo ai dirigenti scolastici responsabili del diniego opposto all’Unicobas relativamente all’indizione di un’assemblea in orario di servizio, ma viene reiterata di accordo in accordo. Le OOSS hanno di fatto assunto la facoltà di legiferare: le norme sulla privatizzazione del rapporto di lavoro nel P.I. garantiscono comunque l’applicazione delle norme contrattuali, anche se contra legem (e le sentenze hanno valore applicativo solo per le singole istituzioni scolastiche alle quali si riferiscono).Il caso della scuola è emblematico di norme ritagliate sugli interessi dei Confederali: nei comuni di Roma, Milano e Napoli (50.000 addetti ognuno), basta presentare un’unica lista con 200 firmatari (la concorrenza del sindacalismo di base è troppo bassa…). Nei provveditorati corrispondenti, che annoverano una pari quantità di dipendenti, occorrerà produrre almeno 600 / 700 liste (una per scuola), con 3.500 firme ed altrettanti candidati (quando difficilmente si raggiungeranno 35.000 votanti).Sarebbe ben altra cosa calcolare la “rappresentatività” con elezioni basate innanzitutto su liste nazionali, poi provinciali e di singolo istituto (per la delegazione trattante di quel livello), nonché solo sul dato elettorale puro. Ma il mondo della politica (evidentemente del tutto omologato a questo sistema stalino-fascista, tace nella sua totalità). Tutti i partiti, a cominciare da quelli comunisti (al governo sino a qualche mese fa), i “democratici”, quelli dell’arco “costituzionale”, i “liberali” ed i liberisti, tacciono anche sulle disparità di trattamento fra sistema pubblico e privato, come per esempio nel caso delle aspettative sindacali a carico delle OOSS (ma con contributi pagati dallo stato), concesse nel privato a chiunque e riservate (persino quelle…!) nel pubblico solo ai “maggiormente rappresentativi”.Il sistema dei partiti è connivente anche su di un’altra regola “aurea”: i pensionati, in questo Stato delle mafie e delle lobbies, possono iscriversi unicamente alle OOSS che sono interne al CNEL, organismo al quale si accede – per l’appunto – solo per nomina politica (in tal modo è entrata anche la CUB…). Vale a dire che persino il sottoscritto, quando andrà in pensione, non potrà decidere di iscriversi al sindacato del quale è segretario, potendo eventualmente (per forza) scegliere solo una delle sigle alle quali lo Stato assegna il monopolio sui pensionati (che sono, guarda caso, la maggioranza fra gli affiliati a CGIL, CISL e UIL…!).
Stefano d’Errico (Segretario nazionale dell’Unicobas)
1) L’unica possibilità di sopravvivenza a livello locale, prevista però solo nel 2000 “in prima applicazione”, venne legata al requisito dell’affiliazione di almeno il 10% dell’intera forza lavoro. Cosa che, in una zona di media sindacalizzazione (35%) come il pubblico impiego, non era e non è data in Italia in nessuna provincia neanche a CGIL o CISL. Se per far parte di un Consiglio Comunale fosse stata obbligatoria l’iscrizione del 10% degli aventi diritto al voto, non sarebbero mai esistite liste locali in grado di competere.
2) Sarà d’uopo ricordare che, fra le sigle più accanite nel sottoscrivere e cercar di far rispettare l’esclusione delle OOSS di base dal diritto d’assemblea, si colloca proprio quella CGIL che – pur contraddicendo per contratto l’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce a tutti il diritto d’assemblea in orario di servizio – s’è fatta bella per anni della battaglia contro l’abolizione dell’art. 18.