In Francia continuano le manifestazioni contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron che, al suo secondo mandato alla presidenza, non potendo essere rieletto, vuole perseguire, ad ogni costo, il suo progetto autoritario con una arroganza e una sicumera inconcepibili in un governo democratico. Nel giro di sessanta giorni sono stati indetti ben dieci scioperi generali, da tutti i sindacati unitariamente (e ne è già stato preannunciato un altro per il 6 aprile), con manifestazioni di grandi, medie, piccole dimensioni e con svariate modalità di realizzazione (scioperi regolari, scioperi senza preavviso, blocchi stradali, tumulti o semplici manifs sauvages, assemblee studentesche ovunque) a testimonianza di un modo diverso di fare politica che è andato generalizzandosi in tutto il paese. In queste occasioni sono scesi in piazza milioni di francesi: lavoratori, disoccupati, donne, giovani, anziani e famiglie intere, nelle grandi città, a partire da Parigi, Nantes, Bordeaux, ma anche nelle piccole città e nelle zone rurali. Il momento di adesione più alto si è raggiunto il 23 marzo, a seguito della decisione del governo di sottrarsi al voto parlamentare e di ricorrere al colpo di mano del decreto-legge (il famigerato articolo 49.3 della Costituzione gollista), imponendo, con appena nove voti in più rispetto a quelli per la sua abrogazione e per le dimissioni del governo, una riforma, in realtà osteggiata da oltre il 75% dei Francesi. E sembra proprio che la lotta non si voglia arrestare: la mobilitazione sorta, inizialmente, contro la volontà di Macron di innalzare l’età pensionistica da 62 a 64 anni, si è ben presto allargata, aggregando tutte le ragioni della resistenza contro gli effetti devastanti del capitalismo liberista: si lotta in difesa degli interessi dei lavoratori, sia dei settori privati sia di quelli pubblici e di tutte le categorie socio-professionali, si lotta contro la subordinazione delle donne, le più penalizzate da questa riforma sia perché i loro salari sono i più bassi, sia perché non possono mai arrivare a 43 anni di contributi per la pensione. Si lotta contro la precarietà lavorativa ed esistenziale; si lotta contro una povertà che si allarga sempre più a fronte di un arricchimento smisurato di una ristretta élite; si lotta contro lo stile di vita dominante, che si basa sulla triade del “lavora, consuma e muori”. Lottano i giovani che sanno bene che, restando così le cose, avranno una pensione da fame e forse neanche quella. È la rivolta contro una riforma che favorisce solo quelli che già godono di privilegi, i colletti bianchi, i top manager e chi svolge mestieri poco faticosi, non usuranti e che possono permettersi di proseguire a lavorare ben oltre l’età pensionabile. Non solo la mobilitazione continua a crescere, ma, secondo un sondaggio, il 62% dei francesi ritiene che il movimento sociale contro la riforma delle pensioni debba “inasprirsi per far retrocedere l’esecutivo” e tale livello sale addirittura al 76% nelle classi popolari. La lotta è dura, richiede enormi sacrifici, anche dal punto di vista economico (e vi si fa fronte con le casse di solidarietà), ma continuano i blocchi alle raffinerie che stanno lasciando a secco le stazioni di servizio, si allarga lo sciopero della raccolta dei rifiuti e dei trasporti pubblici, si compatta il fronte studentesco: il numero di licei e università che hanno occupato o tentato di farlo è enorme, più di 80 università vedono grandi assemblee generali e in moltissimi licei ogni giorno si tengono incontri in appoggio alla mobilitazione. Di fronte a questa situazione il Governo, non è disposto a cedere su nessun punto, confidando nel bisogno di un ritorno generalizzato alla normalità e a Macron (uno dei principali esponenti dell’involuzione degradante della “democrazia parlamentare” nell’Occidente neoliberista) non resta altro che la pura coercizione, esercitata in maniera indiscriminata dalle forze dell’ordine, con continue cariche, centinaia di arresti e sgomberi: oggi contro chi si oppone alla riforma pensionistica, come ieri è avvenuto contro i Gilets Jaunes. E comunque l’iter della riforma pensionistica è tutt’altro che concluso; comincia a farsi strada anche l’ipotesi di una via referendaria per l’abrogazione della riforma, anche se in Francia i referendum abrogativi sono di difficile accesso. Infatti, il sistema presidenziale autoritario francese permette solo di avanzare una richiesta di “referendum d’iniziativa condivisa” (RIP) al Consiglio costituzionale. Se il Consiglio la giudicherà ricevibile, allora si dovranno raccogliere 4,87 milioni di firme entro nove mesi, pari ad un decimo degli aventi diritto al voto.
Questo è ciò che sta accedendo in Francia. Di contro in Italia, dove la destrutturazione economica, sociale, culturale e politica compiuta negli ultimi 40 anni è stata anche maggiore rispetto al paese transalpino, grazie anche ad una sinistra, che dopo il crollo del muro di Berlino ha sposato acriticamente i diktat del liberismo economico e a sindacati meramente concertativi, nel 2012 la Legge Fornero ha innalzato l’età pensionabile prima da 60 a 65 anni, poi a 67 anni, con il consenso generale di tutti i partiti dell’arco costituzionale ed il muto appoggio delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (solo il sindacalismo di base conflittuale si è opposto strenuamente, ma inutilmente). Le riforme in ambito lavorativo, dal Pacchetto Treu, alla Riforma Biagi, al Jobs act di Matteo Renzi hanno notevolmente peggiorato le condizioni dei lavoratori in termini economici e di sicurezza (non a caso il nostro paese vanta il triste primato europeo di tre morti sul posto di lavoro al giorno); tutti i governi che si sono succeduti hanno portato avanti una serie di politiche neoliberiste che hanno creato precariato e nuove forme di sfruttamento, privatizzazioni ed aziendalizzazione dei servizi pubblici (scuola e sanità in primis), impoverimento generalizzato, criminalizzato l’immigrazione (legge Bossi-Fini, CIE, respingimenti), repressione verso le voci dissenzienti più radicali. In Italia c’è stato l’unicum Berlusconi, capo del governo per ben tre volte e contemporaneamente dominus indiscusso delle telecomunicazioni e della carta stampata, ma ci sono stati anche Presidenti del Consiglio come Monti e Draghi, dirette emanazioni dei poteri forti della finanza internazionale. Da sei mesi è in carica un governo neofascista (scelto da solo il 27% degli elettori aventi diritto al voto) pronto a varare una serie di norme che vanno nella direzione di un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita della maggioranza dei cittadini – bocciando i sostegni alle fasce più emarginate e trascurando il tema del salario minimo garantito, allargando il solco della disuguaglianza con il progetto della flat tax, contemplando provvedimenti legislativi che facilitano l’evasione fiscale – mosso, contemporaneamente, da una sfacciata volontà di rivisitazione e riscrittura della nostra Storia più recente. Ma, nonostante tutto ciò in Italia non c’è stata, né c’è alcuna mobilitazione popolare. A cos’altro dobbiamo assistere nel nostro paese per fare come in Francia?
Stefano Lonzar
(dell’Esecutivo Nazionale Unicobas)