La svolta neoliberista nella scuola italiana.
La svolta neo-liberista si ha, nel sistema formativo italiano, a partire dal primo disegno di legge sulla cosiddetta “Autonomia Scolastica”. Siamo alla fine degli anni ’80, immediatamente dopo le prime lotte autogestite del corpo docente italiano (un nuovo ciclo, partito nell’86: la scuola è all’origine della crisi, oggi definita irreversibile, del sindacalismo tradizionale). Da allora la “Autonomia” faticherà molto ad imporre le sue linee di aziendalizzazione: governo dopo governo, il tentativo verrà contrastato dalle lotte e solo con il settembre 2000 si completerà un quadro che, ad esempio all’Università, s’impone già nel ’90.
Le assi portanti della presupposta Autonomia contraddicono persino il significato letterale del termine. Invece del decentramento, si impone l’accentramento dei poteri decisionali nelle mani del preside “manager”, che diviene “dirigente scolastico”, a scapito dell’assetto che la comunità educante si era data. Vengono così ridotti i poteri degli Organi Collegiali (Collegio dei Docenti e Consiglio di Circolo/Istituto). Vengono ridotti gli stanziamenti statali per preparare la strada ad interventi invasivi del privato, inteso come committente di programmi e “sperimentazioni” guidate ad uso e consumo dell’industria. Gli organi elettivi, come i Consigli Scolastici Distrettuali, Provinciali e lo stesso Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, vedono ridotte le proprie competenze, in favore delle consorterie politiche: in materia di “razionalizzazione” della rete scolastica (edilizia, autonomia delle scuole, etc.) i Consigli perdono ogni potere, anche se già era semplicemente consultivo.
Con la scusa dell’Autonomia, vengono aumentati i carichi burocratici del personale docente ed amministrativo. Per i primi (complici i sindacati di stato, confederali ed “autonomi”) s’interviene imponendo attraverso i dirigenti scolastici progetti onerosi dal punto di vista dell’orario, tentando forme di divisione fra gli insegnanti tramite meccanismi di selezione autoritaria con differenti retribuzioni, mettendo in secondo piano le capacità professionali specifiche e l’ambito dell’istruzione propriamente detta, in favore di demagogiche boutades falsamente formative. Ai secondi si impongono nuovi impegni che erano di competenza dei Provveditorati (ricostruzioni di carriera, pagamento stipendi dei precari, etc.), ora ridotti a meri “uffici scolastici provinciali” subordinati a mega-direzioni regionali con competenze politiche piuttosto che gestionali.
A fianco della “Autonomia”, i sindacati di stato hanno consentito anche una vera e propria trasformazione dello stesso rapporto di lavoro dei lavoratori della scuola: in luogo di un rapporto di tipo pubblico, viene introdotto nel ’95 un contratto di tipo privato, con la possibilità della riconversione (“selvaggia”) professionale ed interprofessionale, della mobilità interprovinciale, del licenziamento per esubero, della cassa integrazione. La scuola viene trasformata in una sorta di “servizio” dequalificato: obiettivo vero è limitare la libertà d’insegnamento e la libertà di apprendimento. La prima, da mettere a servizio degli affamati ambienti padronali dell’industria affinché si comprima anche la seconda: occorre “sfornare lavoratori duttili”, pronti a tutti gli usi. Pronti soprattutto ad un mercato del non-lavoro (precariato, lavoro interinale e comunque a termine, gabbie salariali intese come contratti d’area ove è possibile retribuire con un salario inferiore al minimo contrattuale) all’interno del quale, sempre complici i sindacati “maggioritari”, si smantellano le garanzie contrattuali e si cercano meri esecutori in senso letterale ed ideologico. Nell’ambito di questa offensiva padronal-sindacale, coperta dai partiti, si sviluppa un forte attacco alla professionalità docente, accusata, da “sinistra” come da destra, di non essere al passo con i ritmi ed i tempi dettati dal pensiero unico, contro il quale la scuola rappresenta in effetti una sacca importante di resistenza qualificata e pericolosa. Tutti gli strumenti sono buoni: vengono usati i vecchi arnesi del più vieto “operaismo” di maniera sulla “improduttività” del lavoro intellettuale, ma scendono in campo anche i settori rampanti della Confindustria, che accusano la scuola di non essere al passo con le necessità del mondo della produzione. Questa è una strategia che viene da lontano, da quando la scuola è stata identificata come il focolaio delle rivolte sociali (’68 e ’77 docet) e che ha prodotto la riduzione della retribuzione media dei docenti italiani ben sotto il livello minimo d’Europa dove, per scuola, università e ricerca, l’Italia spende meno di chiunque altro.
L’ultimo tassello della manovra è rappresentato dalla distruzione (realizzata solo in partde) delle norme sulla democrazia scolastica (gli Organi Collegiali) e dalla messa a regime della regionalizzazione dell’istruzione (già approvata), nell’ambito della creazione di un sistema formativo “integrato” fra scuola pubblica e privata (con ulteriori favori per quest’ultima), nonché dalla controriforma dei Cicli (della quale si tratta a parte).
LA PARTITA SULL’ORARIO E LA RIFORMA DEGLI ORGANI COLLEGIALI
Due anni fa l’Unicobas denunciava che l’assenza totale dell’orario dei docenti (viene ribadito solo quello di ATA e DS), espunto dall’ultimo contratto (quello del concorsone), avrebbe aperto la strada ad una progressiva ingerenza, resa possibile dalla “decontrattualizzazione”. Molti facevano finta di non capire.
Eppure la strategia diviene sempre più chiara. Ciononostante, perché mai bisognerebbe aspettare la controriforma degli OOCC? Già la “autonomia” assegna ai Consigli di Circolo o Istituto (organismi dove la componente docente è in minoranza) l’approvazione ultima del POF (sino all’agosto 2000 di competenza del Collegio Docenti).
E sempre l’autonomia stabilisce che l’orario è interno al POF.
E non si tratta solo delle articolazioni o della “flessibilità” dello stesso, ma proprio anche della sua complessiva durata, legata a progetti, piani di apertura delle scuole (che possono variare), etc.
Visto che c’erano le elezioni sindacali per le RSU, CGIL, CISL, UIL e SNALS hanno ricontrattato (nell’estate 2000) che l’orario sancito nel CCNL ’95 rimane provvisoriamente in vigore.
Dove vogliono andare a parare? Dal prossimo anno, e via di seguito, con la dovuta parsimonia italica, attendono che ci si abitui al concetto di un monte ore annuo (unico elemento restante, una volta abolito l’orario settimanale).
Li sosteneva anche il “disordino dei Cicli”, visto che nel documento propedeutico “i saggi” hanno inserito l’elemento del monte di 1000 ore annue per il futuro primo ciclo (diventano circa 25 h. settimanali, così sarebbe riusciti persino ad aumentare l’orario dei docenti delle elementari, oggi a 22 h. di insegnamento più 2 di programmazione settimanali), elemento di pronta esportazione anche nel ciclo superiore.
Allora, quale sarebbe l’orario annuale? Quello risultante dallo scorporo dei 32 gg. di ferie (+ 3 di festività soppresse, dopo il ripristino del 2 giugno) sanciti contrattualmente (unico “paletto” rimasto).
Equivarrebbe a dire:
1) si lavora per tutte le ore relative ai restanti giorni dell’anno (giorni limitrofi al Natale compresi), che vengono “riversate” nel periodo di apertura della scuola agli alunni;
2) si lavora anche d’estate, escluso il canonico mese di ferie;
3) si fa un “misto”.
Ma sempre “gratis et amore Dei”, perché stiamo parlando di ore che secondo i DS (partito e “Dirigenti”), la CGIL (e non solo) sarebbero, dovute.
Nei Centri di Formazione Professionale, nati con proprietà sindacali ed oggi gestiti da agenzie a capitale misto Enti Locali-privato, i “docenti” (non abilitati), “godono” di 36 h. settimanali di lavoro e sono intercambiabili col personale amministrativo: un anno docente, l’altro magazziniere.
I CFP, sono, peraltro, l’esempio cui far soggiacere l’istruzione professionale statale (vd. accordo sul lavoro sottoscritto nel settembre ’96 dal governo e dalla triplice dell’epoca al completo a livello confederale: D’Antoni, Cofferati, Larizza).
CON LA RIFORMA DEGLI ORGANI COLLEGIALI – a dimostrazione che il vero obiettivo è l’eliminazione di chi è realmente autonomo e non allineato – si è fatto in modo che i lavoratori della scuola, docenti ed ATA, non possano più eleggere direttamente i membri dei nuovi Consigli Provinciali o Regionali, nominati in futuro dai Consigli Distrettuali, così che se non raggiungeremo in quella sede il 50% + 1 dei voti ci falceranno “consociativamente” non indicando nessuno dei nostri candidati. Infatti, dovessimo anche raggiungere il 49% su base provinciale o regionale resteremmo senza rappresentanti, se non otterremo almeno il 51% nei Distretti, gli unici organi ancora eletti dalla “base”.
In sintesi, abbiamo vissuto un attacco a tenaglia: da una parte elementi sempre più asfissianti di privatizzazione della scuola pubblica, dall’altra il tentativo di fare della scuola privata il modello per la scuola pubblica.
Una scuola privata peraltro largamente squalificata, che ha visto scendere la propria influenza reale, raccogliendo ormai solo l’8% della popolazione studentesca (un tempo si trattava del 15%). Preoccupazione precisa del governo di centro-sinistra è stata quella di determinare un aumento degli stanziamenti per i diplomifici privati, nonostante la Costituzione vieti qualsiasi forma di esborso pubblico. In particolare, con la legge cosiddetta di “parità”, vengono (dal 2000) destinati circa 700 miliardi di lire l’anno ai gestori delle scuole di tendenza (va raddoppiandosi così l’entità dei regali già messa a regime dagli esecutivi democristiani, ma occorre ricordare che le regioni guidate dal vecchio PCI sono sempre state molto larghe di manica con le scuole cattoliche).
LA POLITICA DEI DUE FORNI
Da una parte la “scoperta” principale, quella della nuova dignità docente: nell’istituzione scuola lavorano dei professionisti, oggi ridotti al ruolo di impiegati e/o baby-sitter, dall’altra i nemici di sempre.
Il mondo del sindacato concertativo che ha appiattito in basso la retribuzione dei “quadri intermedi” per lanciare in alto i dirigenti (altro che solidarietà sociale e, come ben sanno i nostri precari, sviluppo dell’occupazione!!!). Che, in omaggio ad un operaismo di maniera, ha punito i docenti (i “saprofiti” per eccellenza), ceto considerato improduttivo.
Il mondo dell’imprenditoria, interessato a gestire in prima persona la formazione senza riguardo alcuno per l’istruzione, che vorrebbe trasformare i docenti in cultori e trasmettitori di competenze meramente esecutive, da introiettare negli studenti per renderli sempre più sudditi in funzione di un vero e proprio mercato del non lavoro ove lo smantellamento delle garanzie e dei diritti mal si conciliano con attitudini e sapere critico. Il loro ipocrita programma minimo sulla scuola è il seguente: gli insegnanti devono essere al nostro servizio, perchè così si “sviluppa l’occupazione”. Di contro, siccome non assemblano bulloni, non creano ricchezza, vanno remunerati poco (anche perchè così sono più ricattabili ed asservibili). Ma, come se assemblassero bulloni, vanno valutati su basi quantitative (così promuoveranno tutti e non contribuiranno alla creazione di una coscienza popolare capace di qualche turbativa).
I populisti e gli “operaisti” applaudono: i satrapi dell’insegnamento, i bacchettoni sono finalmente ridotti in catene. Essi non possono più bocciare: la “selezione di classe” è finita! Poco importa se sarà proprio la “classe” ad avere meno strumenti per difendersi! Questi due mondi hanno trovato il punto d’incontro nel funzionalismo pedagogico, esercizio di certa accademia superficiale, pseudo “ideologica” o venduta al mondo dell’industria ed alle mediazioni atte alla conservazione di un potere qualsivoglia e comunque orientato. L’idea funzionalista utile ad un’imprenditoria che pensa solo al proprio interesse ed alla necessità di avere a disposizione forza lavoro duttile e servizievole, ricattabile perchè incerta sui diritti e digiuna di saperi forti, è stata sposata anche dagli epigoni di un cretinismo accademico cosiddetto di sinistra. La sintesi l’abbiamo vista nei nuovi curricoli che volevano imporre con il “disordino dei cicli”: il trionfo delle “competenze” tramite l’abbattimento dei saperi! La creazione di un luogo comune secondo il quale al ragazzo del “Bronx” non si deve imporre la “tortura” del greco, del latino … di tutti i saperi classici, sino alla storia. Così viene a sparire anche la sua storia come essere sociale (che non recupererà certo svolgendo un tema sulla propria famiglia). Come contropartita gli è concessa la “garanzia” del diploma, ma al tempo stesso gli si fa presente che con quel diploma non ci farà nulla, che dovrà cambiare lavoro almeno 20 volte nella vita … via via sino alla delegificazione del titolo di studio (pressoché ultimo fra gli obiettivi della Loggia P2 ancora non realizzato dalla cosiddetta “seconda repubblica”).
La scuola si è trovata compressa fra l’incudine ed il martello. Il mondo del pregiudizio ha attribuito al docente ogni responsabilità, senza riconoscergli alcun merito. Contestualmente, le prospettive sono tutte predeterminate in senso punitivo. Gli insegnanti si sono trovati senza alcuna “sponda”.
Il sindacalismo confederale vede nei docenti “lavoratori atipici a part time” da piegare a standard impiegatizio-industriali, quello “autonomo” (lo SNALS che fu di Cirino Pomicino e di Clemente Mastella) punta sulle clientele dei presidi, la Confindustria ci considera ceto improduttivo e mira ad assoggettarci ed a ridurre la nostra indipendenza, il mondo della politica segue gli stessi canoni.
Come la CGIL, i Cobas non possono comprendere lo specifico della funzione docente. Da questo le accuse di “corporativismo” persino contro la vertenza per l’uscita dal pubblico impiego. Non si rendono neanche conto che la salvaguardia ed il rispetto della Costituzione non possono valere a senso unico: valgono se si lotta per garantire l’applicazione dell’art. 33 contro i finanziamenti delle scuole private ma anche se si lotta perché la scuola venga trattata da istituzione come disposto.
Distorti parametri ideologici non sono utili al fine di una rivalutazione del ruolo docente, un ruolo che non può venire misurato col bilancino dell’omologazione in una società complessa dove contano le funzioni e nella quale non è certo equo un appiattimento che non ne tenga conto, che non riconosca responsabilità ed impegno dei docenti. Questo, mentre i fondi distratti dalla scuola vanno a vantaggio di categorie protette e consorterie di potere, assolutamente favorite tanto quanto discutibili (dirigenti scolastici, dipendenti della banca d’Italia, uscieri del Parlamento, etc.). Rimettere le cose al loro posto è anzi un’operazione “rivoluzionaria” perché sulla scuola si gioca una partita di grande centralità sociale, che non può essere compresa da quanti intendono semplicemente fare degli insegnanti massa di manovra, nel caso dei Cobas assecondando gli obiettivi politici di Rifondazione Comunista. Anche perché questi obiettivi non sono così lineari e trasparenti come si pretenderebbe, dal momento che Bertinotti ha votato a favore del taglio del 3% delle cattedre nel ’97 e della relativa riduzione dei posti del personale ATA che vi ha fatto seguito. Inoltre, sempre quando era nell’area di governo, aveva concordato il programma su legge di parità e disordino dei cicli, oltre all’accettazione esplicita in parlamento del congelamento pensionistico, di parti consistenti della cosiddetta “autonomia” nonché della vergognosa legge sulla “rappresentanza sindacale” che ha tolto anche ai Cobas persino il diritto di convocare assemblee in orario di servizio. Esattamente come voleva la CGIL, sindacato all’interno del quale il PRC lavora esattamente come nei Cobas, con un collateralismo perlomeno sospetto.
Rispetto alla Gilda, la divaricazione degli obiettivi è sempre stata del tutto evidente a partire da due elementi. Il primo, relativo al nostro impegno per la rivalutazione di tutte le funzioni che si esprimono nella scuola: da quella docente, dominante, a quelle del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario. La Gilda non ritiene di doversi occupare di ciò che si muove intorno agli insegnanti, convinta di dover far emergere la atipicità della docenza, nell’indifferenza totale per gli ambiti gestionali e di supporto alla didattica. Noi non siamo mai riusciti ad immaginare una scuola che potesse funzionare senza il ruolo svolto da chi firma bilanci miliardari (e nonostante la sua responsabilità venga riconosciuta in modo inadeguato); senza assistenti che spesso coprono mansioni da direttori amministrativi anche perchè la L. 426/90 impedendo la sostituzione degli uni impone un allargamento delle competenze agli altri invece di riconoscimenti legati alle prestazioni; senza tecnici ed ausiliari, il cui ruolo di coadiuzione educativa non è affatto riconosciuto.
Il secondo, derivante dalla scelta strategica operata dalla Gilda: il contratto separato per i docenti. Una scelta da noi non condivisa non solo perchè fautori della necessità di una determinazione complessiva, funzionalmente interdipendente, degli impegni e del ruolo di tutto il personale scolastico. Bensì perchè abbiamo identificato nella truffa (anti)costituzionale operata a danno del comparto scuola il vero nemico da battere. Si tratta della privatizzazione del rapporto di lavoro, maramaldescamente imposta alla scuola nonostante la Costituzione la annoveri tra le istituzioni, mentre l’Università, istituzione anch’essa, veniva lasciata con un contratto di natura pubblica. La scuola inserita nel calderone del pubblico impiego (col quale ha ben poco da spartire) e quindi, paradossalmente, privatizzata: prima nel rapporto e poi nel metodo di lavoro. Da questo paradosso discende una “autonomia” intesa come aziendalizzazione e che prevede la figura del dirigente scolastico, trasforma lo studente in cliente, nega finanziamenti pubblici adeguati alle scuole pubbliche per finanziare invece i diplomifici privati confindustriali e confessionali, creando un sistema formativo “integrato” ed il principio di sussidiarietà pubblico-privato (norme mai combattute dalla Gilda). Questa “autonomia” apre la strada allo “sponsor” ed alle committenze, nonché ad una sorta di autogestione della miseria culturale ed economica che significa programmi funzionalistici all’americana ed ambienti squallidi che nulla hanno a che vedere con la libertà di insegnamento e di apprendimento e molto con ritmi modulari senza senso per gli alunni, che impongono l’aumento gratis et amore dei dei carichi di lavoro per i docenti (e non solo).
Ciò ha determinato la nostra scelta strategica: portare la scuola fuori dal pubblico impiego. Che ce ne faremmo, infatti, di un contratto, seppur separato, sempre interno a tutto questo armamentario (ivi compresa persino la progressiva eliminazione degli scatti di anzianità imposta in osservanza dei diktat del DL 29/93, quello della privatizzazione del rapporto di lavoro)? Un contratto che deve soggiacere ai presidi-manager ed ai canoni della privatizzazione non ha alcuna alterità e nulla a che fare con un comparto nel quale non esistono “operatori” ed “utenti”, nel quale il momento principale è appunto quello dell’interazione metodologico-didattica, che non può essere considerato erogazione di alcun servizio: libertà di insegnamento e libertà di apprendimento non possono e non devono venire messi a servizio (né degli appetiti privati, né di quelli politici).
Infine, la Gilda sacrifica il ruolo unico docente, che noi perseguiamo ostinatamente convinti della necessità, prima di tutto “strutturale”, di smantellare la piramide gentiliana che ha introdotto l’idea sbagliata che fra chi insegna esista chi è “più docente assai” e che vi siano ordini e gradi di scuola più “nobili” di altri: parità di orario e salario, non solo a mero pareggio contabile quindi. La rivendicazione forte di una rivalutazione alta della funzione docente non è separabile dalla piena affermazione di una sua specificità complessiva, dalla scuola dell’infanzia al superiore (a maggior ragione se se ne rivendica l’analogia sino all’università). Non può valere, per chi svolge questo lavoro, una logica “differenziale”, né fra scuole, né fra “figure” perchè unica è la funzione. Da qui la nostra critica, ad esempio, alle “funzioni obiettivo”, divenute peraltro una gabbia cottimista (in un ambito dove la qualità è inversamente proporzionale alla quantità), pure per quanti, anche se non nominati perchè “cari” al dirigente o ad una cricca sindacale, bensì per riconosciute capacità, si sono visti retribuire meno di altri che tramite strani “progetti” hanno collezionato lo stesso numero di ore aggiuntive, ma retribuite a pieno contro il forfait da 250.000 lorde. Analoga la critica alle “figure di sistema”, tutto sommato non disprezzate dalla Gilda.
Quale progetto?
IL “DISORDINO” DEI CICLI (E LA NOSTRA PROPOSTA)
Che la scuola italiana avesse (eb abbia) bisogno di tratti di riforma è indubbio. L’attenzione alla scuola è quasi sempre stata inadeguata in questo Paese, nè le modifiche a colpi di circolari o “sperimentazioni” provvisorie, divenute stabili per forza d’inerzia, hanno mai risolto i problemi aperti. Andavano (e vanno) rimossi i limiti prodotti dallo scarso raccordo fra ordini e gradi di scuola, le storture derivanti dalla rigidità e dall’inattualità dei programmi (specialmente della secondaria).
Per questo motivo l’intenzione di Berlinguer di mettere mano alla questione era stata salutata positivamente dal mondo della scuola.
Purtroppo, si è visto ben presto che l’operazione nasceva ancora una volta come nel passato: politica del compromesso e dell’ambiguità, scarsi contenuti, interventi estemporanei, bassa considerazione del corpo docente. Tanto che venne assemblato un “Comitato di Saggi” nel quale, pur presenti cantanti ed attori, non fu chiamato un solo insegnante militante. Se, da un lato, venivano colti alcuni aspetti – possibilità per gli alunni di cambiare indirizzo, maggior peso ai docenti interni (questo nella riforma della maturità, con il limite però di favorire le scuole private, per le quali sarebbe stata necessaria una normativa differenziata) – dall’altro risultava subito evidente che non v’era stata alcuna attenzione ai programmi ed ancor meno alla qualità espressa da importantissimi settori della scuola pubblica.
Abbiamo avuto così, nell’ambito dell’idea condivisibile di un’unificazione del ciclo di base, una scarsissima attenzione alla scuola elementare, che secondo l’OCSE è stata al primo posto nel mondo sino al 1990, già trascinata in basso (al comunque rispettabile quinto scalino) dalla controriforma che proprio in quell’anno (L.148/90) ha introdotto i moduli verticali, a “scavalco” e “4 su 3”, ha regalato alla privata il congelamento del tempo pieno e tentato di destinare le ore di contemporaneità alle supplenze.
Anziché intervenire per rimuovere i danni della Falcucci e di Galloni (e dei soliti 4 sindacati), Berlinguer ha pensato bene di scaricare su elementari e medie il peso di una riforma singolarmente costruita “a costo zero”. Così, incurante della matematica, il primo ministro “di sinistra” ha creduto di poter concentrare su 7 anni i docenti di due ordini di scuola che oggi insistono su 8, prefigurando un esubero di circa 80.000 cattedre! Ha ritenuto insomma di concentrare i diplomati di scuola elementare sui primi due anni (per la mera “alfabetizzazione”), riservando ai laureati un trattamento non meno discriminatorio, costingendoli alla lotta per il posto con i colleghi provenienti dalla media in un circolo ristretto insufficente agli uni ed agli altri, in più pensando di poterli utilizzare su medesime classi con retribuzioni differenti. Il tutto per interdire ai docenti delle medie il passaggio alla secondaria superiore.
In quanto a “qualità”, lascia attoniti l’idea di un rientro nell’ottica di quell’avviamento professionale giustamente eliminato con la media unica nel ’63: cos’altro, visto che l’alunno di oggi avrebbe dovuto scegliere l’indirizzo a 12 anni? Che dire poi di una scuola superiore, dove lo studente avrebbe potuto essere affidato all’industria perchè lo usasse a piacer suo, salvo una sorta di “tutoraggio” esterno della scuola, e dove i centri di formazione professionale gestiti da agenzie a capitale misto pubblico-privato e dagli enti locali sarebbero diventati il modello surrettizio dell’istruzione professionale statale? Una scuola superiore il cui ciclo formativo perde comunque un anno ed ove le materie classiche ed il sapere critico vengono sempre più pesantemente compressi, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno. Parallelamente si tentava di imporre una “licealizzazione” di facciata, avente per obiettivo vero l’inquinamento e la mistificazione dei licei. In un’epoca nella quale sull’altare della riduzione della spesa si gioca a dadi con le carriere dei docenti – tramite riconversioni selvagge ed accorpamenti di classi di concorso, attraverso un sostanziale spreco delle professionalità acquisite ed una mobilità di cattedra che non tiene conto nè della formazione culturale, nè delle competenze maturate – è peraltro la dignità della scuola nel suo complesso a venire pesantemente colpita.
Sul “disordino” dei Cicli l’Unicobas rimane quindi fermo a posizioni di critica pesante, di protesta e di proposta. Deve rientrare nell’obbligo l’ultimo anno della scuola dell’infanzia (unico passaggio veramente condivisibile del primo disegno di legge Berlinguer, giubilato in corso d’opera). Occorre creare un veicolo di transito per gli insegnanti laureati di scuola media ed elementare al ciclo secondario ed introdurre finalmente il ruolo unico docente, inteso come parità di orario (18 h.) e salario sin dalle materne (è assurdo che quel 60% di insegnanti elementari laureati non possa utilizzare gratuitamente tale titolo neanche ai fini della ricostruzione della carriera, mentre i diplomati di scuola media hanno ottenuto la parificazione stipendiale e normativa con i laureati sin dal 1974, cosa peraltro non concessa invece agli ITP del superiore). Il ruolo unico non è visto dall’Unicobas come “sanatoria” o semplice perequazione, bensì come totale riconoscimento di pari funzione e pari dignità degli insegnamenti e dei vari gradi di Scuola, sino all’Università, nell’ambito del necessario riconoscimento dell’unitarietà del ciclo formativo. Va promosso un anno di orientamento pre-universitario (baccellierato) sottratto alle baronie accademiche e va previsto infine, comunque, l’assorbimento del personale di scuola superiore (e non solo) eventualmente in esubero, negli atenei in funzioni propedeutiche alla formazione di base dei docenti. Occorre maggiore attenzione alle punte d’eccellenza del nostro ordinamento scolastico ed alle professionalità e competenze acquisite dagli insegnanti, nonché alle necessità della popolazione studentesca che richiedono una preparazione adeguata in ordine alle varie fasi di crescita: perciò non deve essere perso neanche un posto delle attuali elementari e va calibrato l’intervento sulle fasce d’età assorbendo un terzo degli insegnanti delle medienel ciclo secondario superirore. Così va creata l’opportunità di una maggiore attenzione alle fasi critiche ed alle necessità di individualizzazione della didattica, utilizzando gli insegnanti “in più” non per le supplenze o in funzione di “tappabuchismo spicciolo”. Per questo rivendichiamo la riduzione del numero di alunni per classe (max 20, 15 in presenza di portatore di handicap). Va, come nel resto dei paesi più industrializzati, colta l’occasione data dal calo delle nascite per creare un vero organico maggiorato e funzionale di istituto: non buono per tutti gli usi (aumento dei carichi di lavoro e delle competenze e restringimento di fatto degli organici), bensì assegnando risorse aggiuntive di personale alle scuole, per interventi nelle zone a rischio, recupero ed approfondimento generalizzati, per far uscire gli insegnanti DOP da un ruolo secondario e mortificante e risolvere (assumendo) il problema strutturale del precariato e delle supplenze estemporanee, al fine di poter sviluppare progetti mirati, nello spirito istitutivo della L. 270/82, per impedire che l’autonomia si risolva in maggiori oneri non retribuiti per il personale attuale.
Paradossale è quanto stava intanto emergendo dai nuovi curricoli.
Innanzitutto risulta inaccettabile che un ministro ed il suo entourages si permettano di condizionare per legge gli strumenti specifici di una categoria professionale. Non si era mai visto in passato in alcun campo: eppure ai docenti viene vietata la “bocciatura”. Sarebbe come se ai medici si imponesse l’eliminazione di alcuni degli strumenti ordinari di intervento chiudendo il campo del sapere disciplinare ad uso e consumo della bassa cucina della politica. L’ambito deontologico e metodologico sono strettamente legati e vengono sempre definiti dall’interno delle professioni, eppure lo strumento del “fermare” l’alunno che non ha acquisito un livello accettabile di maturazione, competenza e strumentalità sarebbe divenuto “off-limit”. Come se nella scuola di oggi si fermasse per il gusto di farlo e come se poi non risultasse più semplice e comoda una sorta di promozione liberatoria “che toglie l’alunno di torno”, anziché il persistere nello sforzo di far crescere ciò che non è cresciuto, di consolidare nozioni e saperi carenti.
La demagogia del governo della (contro)riforma ha toccato punte inusitate: basta ricordarne le contraddizioni costanti. Una volta gli insegnanti sarebbero “spinellatori”, l’altra li si fa passare per strani soggetti dediti a silurare gli alunni, come i “bacchettoni” di una volta!
In generale si assiste, in linea con quanto già detto, ad una depauperazione dei saperi forti. Le future generazioni non dovranno più abituarsi a pensare: dovranno invece saper eseguire. Non dovranno più avere un curricolo completo e padroneggiare gli strumenti complessi della comunicazione atti a decodificare il mondo. Nell’insistenza apparente sull’attenzione verso i nuovi linguaggi del “villaggio globale”, si cela invece una grande operazione demagogica atta a ridurre la vera “alfabetizzazione” di base. La “circolazione interna” delle idee, la relazione e la sistematicità fra cause ed eventi, viene espunta dalla “nuova scuola”. Ne prendono il posto “l’episodicità”, la frammentarietà, l’indulgenza su di un “egoismo povero” segnato dall’attenzione alle mode ed agli strumenti caduchi della comunicazione unidirezionale ed eterodiretta dei media, in una sarabanda in continuo movimento ove l’unico dato effettuale sull’aspetto formativo finale, l’unico obiettivo, sembra essere un totale sentimento di confusione e di incertezza, per assenza di strumenti non risolvibile per l’individuo che tendesse ad uscire dal “coro” e dal “branco” di una supposta “modernità” sempre più priva di senso.
La “moda pedagogica” del momento punta in particolare sull’effettualità immediata, sul dato soggettivo, acquisito senza spirito critico e senza analisi temporale e di causa: la storia diviene prevalentemente vissuto individuale e soggettivo, come se tutto il ciclo formativo potesse esaurirsi in certi stilemi puero-centrici del primissimo ciclo della scuola di base.
Ed è proprio dall’attenzione che una società pone sullo studio e sui nessi della storia che se ne misura la maturità.
Gli Stati Uniti sono il Paese dove meno si studia la storia: nei programmi scolastici si fa menzione quasi unicamente della storia dell’Unione e tale indirizzo lo si riscontra poi persino nello studio delle altre materie. Nell’architettura, ad esempio, non si avverte, neppure in sede universitaria, la presenza di una storia dell’arte del costruire: l’edilizia americana è infatti prevalentemente una sorta di edilizia “usa e getta”, con tutti i limiti provenienti da tale concezione (gli edifici seguono un criterio funzionalistico, ma non sono fatti per durare!). Lo stesso studio della geografia risente di tale sorta di antropocentrismo nazionalistico. I risultati sono da tempo noti: un giovane americano che si approssima all’Università, colloca mediamente, nei test d’ingresso, la Turchia ai confini con il Canada.
Gli USA sono un paese con ben poco “background”! E’ quantomai risibile che l’Unione Europea, e segnatamente l’Italia, seguano il modello di istruzione americano. Eppure è questo l’indirizzo prevalente, ed a farne le spese è soprattutto la storia, tanto che molti intellettuali italiani hanno sottoscritto un (inascoltato) appello all’ex ministro De Mauro perché rivedesse i “nuovi curricoli”, tutti improntati ad episodicità e frammentarietà.
BATTERSI PER UNA VERA RIFORMA
In conclusione, non ci stracceremo certo le vesti di fronte al congelamento (meglio, all’eliminazione) del disordino dei cicli. Né riteniamo che la categoria sarà così sprovveduta dal farsi strumentalizzare in una banale guerra “di religione” in favore della metafisica legge Berlinguer, al seguito di quella CGIL che è così lontana dalla scuola militante da non aver compreso che la legge in questione è universalmente rifiutata, persino dalla sua stessa base: i tempi degli schieramenti per partito preso e del masochismo di massa sono tramontati anche per il popolo di sinistra. Sinceramente avremmo preferito un pur tardivo ravvedimento in luogo di una persistenza caparbia ed ottusa nell’errore.
I lavoratori della scuola sono in grado di discernere: dobbiamo più che mai saper separare le manovre politiche strumentali dalla necessità di cogliere l’attimo per rilanciare in avanti il dibattito e la lotta per modificare l’esistente.
Altro pericolo sarebbe quindi scivolare in una falsa consapevolezza “da scampato pericolo”. Noi non siamo massimalisti ed oltranzisti come i Cobas che, poveri di proposta, si rannicchiano nella mera difesa dell’esistente. La scuola attuale non è certo la migliore in assoluto. La scuola va riformata! Occorre quindi riprendere la battaglia per l’innalzamento dell’obbligo sino ai 18 anni, per l’ingresso nell’offerta formativa obbligatoria dell’ultimo anno di scuola dell’infanzia, per colmare lo iato fra scuola elementare e media, secondo la nostra proposta di “riforma della riforma”, che non consegnammo ai parlamentari certo solo per controbattere estemporaneamente il disordino dei cicli.
UNA SINTESI DEL NOSTRO PROGETTO DI RIFORMA |
Rilanciamo la nostra proposta. La creazione di un ciclo primario i cui primi 5 anni vengano però lasciati alle cure degli insegnanti elementari senza discriminazioni; sesto e settimo anno ai docenti di scuola media, un terzo dei quali dovrebbe passare al ciclo secondario superiore. Obbligo vero a 18 anni e creazione di un anno di baccellierato post-diploma, di orientamento ed atto a consolidare le competenze, riconosciuto in sede universitaria. Mantenimento e sviluppo dei saperi classici e dei saperi “forti”. Ricollocazione degli istituti tecnici e professionali in un ambito di più ampio respiro e non secondo la logica del mero avviamento professionale. Possibile mobilità interna degli alunni su livelli relativi alle proprie capacità ed in questo senso introduzione di crediti formativi seri, che rendano possibili meditate mutazioni di indirizzo ed il recupero delle lacune; possibilità altresì di creare gruppi per età mentale, per competenze e per livelli di sapere. Nuovi programmi che procedano alla necessaria integrazione di saperi manuali ed intellettuali, rivalutazione delle funzioni artigianali: pari dignità per ogni ordine e grado di scuola, “orizzontalizzazione” in luogo della piramide gentiliana. Possibilità di realizzare settori di scuola a tempo pieno, diviso in approccio curricolare e multifunzionale integrati nell’ambito della giornata. Ridare maggior peso ai commissari esterni negli esami finali per le scuole private. No a qualsiasi ipotesi di delegificazione del titolo di studio. Revisione della prassi attinente alle sanzioni disciplinari, rese oggi di fatto inefficaci, ma concessione agli studenti del diritto di “sciopero didattico”. Allargamento del confronto studenti-docenti sul piano formativo, ma per ristabilire il rispetto dei ruoli: ambito metodologico didattico di stretta competenza degli insegnanti senza (dannose ed inqualificabili) intromissioni. Uscita dell’intero comparto scuola dal pubblico impiego e recupero degli automatismi salariali biennali d’anzianità (anticipazione comunque dello sviluppo retributivo) e del ruolo, nonché di un contratto di natura pubblica. Ruolo unico docente a parità di orario (18 h.) e retribuzione, per ogni ordine e grado di scuola, con apposita indennità di funzione docente che ne preveda la collocazione su di un livello da “laurea rivalutata”. Potenziamento dei poteri dei Consigli Scolastici Distrettuali, Provinciali, Regionali e del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (direttamente decisionali): elezione diretta degli stessi con suffragio universale di tutte le componenti della scuola. Revisione della formazione di base dei docenti, con lauree direttamente abilitanti quinquennali comprendenti un biennio metodologico-didattico, esami di psicologia dell’età evolutiva ed un anno di tirocinio pratico selettivo. Revisione del meccanismo del reclutamento dei docenti tramite abolizione dei concorsi ed assunzione diretta dei più meritevoli dalle graduatorie universitarie (nel frattempo assunzione dei precari aventi servizio, attraverso un anno di serio tutoraggio). Sdoppiamento delle figure “gestionali”: Direttore Amministrativo (oggi già presente) per il piano gestionale-contabile e Coordinatore didattico elettivo su base triennale, scelto nell’ambito del Collegio Docenti fra quanti abbiano almeno 5 anni di ruolo e titolo di frequenza relativo ad un apposito corso propedeutico (passaggio degli attuali dirigenti ai ruoli ispettivi). Un anno sabatico di aggiornamento con distacco dal servizio ogni 5, con incarichi di ricerca didattica in sede universitaria ed in ambito europeo. Massimo di 20 alunni per classe (15 in presenza di portatore di handicap). Utilizzazione degli insegnanti in esubero per piani di recupero ed approfondimento varati dai Collegi Docenti, attraverso la loro destinazione alle scuole all’interno di un organico funzionale realmente maggiorato. Creazione di un canale di flusso verso l’Università per l’assorbimento di docenti di tutti gli ordini e gradi in funzione di tutoraggio e ricerca, nell’ambito della nuova formazione di base relativa all’insegnamento. Creazione dell’ordine degli insegnanti e definizione in tale sede di un codice deontologico vincolante per la professione. Creazione di un osservatorio sull’istruzione, inteso come struttura super partes all’interno della quale siano rappresentate tutte le componenti del mondo della scuola. Potenziamento dell’educazione permanente e ricorrente, con la creazione di specifici ruoli per i Centri Territoriali. Particolare attenzione alle scuole “a rischio”, nel cui ambito la continuità didattica va garantita attraverso il riconoscimento di maggiore anzianità di servizio ai fini pensionistici (in analogia a quanto avviene per gli incaricati all’estero) ai docenti che non presentano domanda di trasferimento per un triennio. Buono fiscale standard per l’acquisto di libri e materiale didattico; ingresso gratuito nei musei, cinema e teatri. |
Ecco perché non ci sentiamo esentati da altre preoccupazioni. Né dal mettere in guardia sul rischio tangibile di nuovi ed ancor più palesi violazioni del dettato costituzionale sul divieto di finanziamento pubblico delle scuole private o relative all’uso del cosiddetto buono della “berlu-scuola”. A maggior ragione se tutto ciò transitasse dalla via aperta con la regionalizzazione, un ennesimo regalo fornito in zona-Cesarini dal governo uscente a quanti volessero aprire all’ingresso strutturale dei diplomifici confindustriali e confessionali nell’ambito dei finanziamenti statali. Come peraltro già fatto con la legge di “parità”, che ha posto le premesse di questa vergogna attraverso il sistema formativo cosiddetto integrato. Esso già pone formalmente sullo stesso livello scuola pubblica e scuola di tendenza ed accetta quel principio di sussidiarietà che già agisce da tempo (complici le regioni governate dal centro sinistra) per le materne e parte di elementari e medie, attraverso la deroga per lo stato dall’obbligo di creare entità didattiche laddove ne esistono di private.
La regionalizzazione potrebbe avere risvolti pericolosissimi anche sindacalmente se si creeranno ruoli regionali, con contratti separati. Già oggi in alcune regioni autonome lo stipendio è molto più “europeo” che nel resto del Paese. Tantomeno accetteremmo di buon grado l’introduzione surrettizia della scuola nazionale padana o di scuole del sottosviluppo e delle clientele politiche e padronali locali, mafia inclusa.
L’EQUIVOCO DI “FORMAZIONE” ED ESAMI IN ITINERE
L’attacco alla funzione docente prende le mosse da un “equivoco” creato ad arte da “addetti ai lavori” e mestieranti sindacali interessati al proprio personale intervento nella cosiddetta “formazione in itinere”. In realtà non si tratta che di un controsenso. Non esiste, in quanto contraddizione in termini, la possibilità di una “formazione in servizio” professionalmente valida. Ripetiamo che va individuata una quota percentuale per consentire a tutti la fruizione quinquennale dell’anno sabatico in sede universitaria ed europea. Ed è comunque assurdo che si tenda a non riconoscere l’aggiornamento svolto in proprio e che non siano previsti momenti di formazione in itinere autogestiti, con esonero dal servizio, per un monte ore deciso dai Collegi dei Docenti, per percorsi in comune fra gli insegnanti di ordini di scuola contigui, onde mettere a confronto ed uniformare sulle classi di raccordo, nei limiti del possibile, l’approccio alle aree disciplinari.
Occorre demolire i carrozzoni IRRSAE oggi IRRE (istituti regionali per l’aggiornamento, brodo di coltura delle burocrazie sindacali e “pedagogiche” d’accatto), i cui fondi devono essere messi direttamente a disposizione degli istituti.
Lo stato, viceversa, non si occupa affatto della formazione di base. Da qui ha tratto avvio la vergogna del “concorsone”, riservato peraltro a docenti con almeno 10 anni di “ruolo” e quindi già utilizzati da 18 anni (la media di precariato pro-capite è di 8 anni). Dall’idea che si debba intervenire sui docenti dopo che sono stati assunti.
Occorre invece una seria selezione a monte ed una ben diversa attenzione alla preparazione del personale da assumere. Per questo, anche alla luce delle recenti vicende clientelari, siamo per l’abolizione dei concorsi per l’assunzione con le loro prove estemporanee, nella convinzione dell’utilità di lauree quadri-quinquennali (per tutti i docenti) direttamente abilitanti, con almeno un biennio ad indirizzo didattico, esami obbligatori di psicologia dell’età evolutiva, un anno di tirocinio pratico e tesi a carattere metodologico, che diano accesso a graduatorie provinciali per l’assunzione. Nel frattempo si assumano i precari, ma con un selettivo tutoraggio sul campo, piuttosto che con farsesche abilitazioni riservate, attuate sempre secondo la logica del corso-concorso. Le prove non possono essere estemporanee e la valutazione va consolidata in itinere durante un periodo standard. La scuola non deve assorbire chiunque aspiri ad un semplice posto di lavoro di ambito intellettuale: vi si esercita una professione ove si può anche essere come Einstein nel campo dei saperi, ma non risultare ugualmente adatti nell’interazione didattica, che richiede adeguate capacità e competenze pedagogiche, relazionali ed empatiche.
CREARE IL CORPUS DEONTOLOGICO DELLA FUNZIONE DOCENTE
Qui ed ora, occorre delineare lo specifico di una funzione che, a dispetto dell’enorme portata sociale, è stata piegata ad un trattamento ed a metri di giudizio meramente impiegatizi.
Il lavoro dei docenti, sul quale, a dispetto di tutto, si regge la scuola italiana, non è facilmente “valutabile”. Standard formativi e congetture simili sono stati abbandonati da più di 15 anni negli Stati Uniti e nel Canada, perchè hanno compromesso ed omologato in basso le competenze degli studenti. Un docente non produce bulloni, nè attende a pratiche d’ufficio. Per questo non può venire giudicato secondo criteri quantitativi o metri “produttivistici”.
Occorre una scuola ove l’insegnante non sia più considerato mero trasmettitore di nozioni, ma creatore e costruttore di progetti educativi, agente ed attore della ricerca culturale.
Si viene invece abbassando il livello della scuola pubblica affinché questa diventi un surrogato di massa, e perciò di second’ordine, delle scuole private (nuovo assurdo modello: istituti che chiedono fondi per non morire, con percentuali di iscrizioni risibili rispetto al resto d’Europa), assistenziali e permissive solo con l’elite. Vogliono sottrarre al pubblico il piano di eccellenza che vanta nei confronti del sistema di mercificazione della cultura, ove invece le punte avanzate sono riservate a pochi ed al prezzo dell’accettazione di stili educativi di tendenza, fortemente segnati ideologicamente. In analogia si vorrebbe che le scuole pubbliche si facessero pure “concorrenza” fra loro, per sedimentare istituti di prima e seconda classe.
E’ appunto l’aberrazione della scuola come servizio, già introdotta dall’omonima carta a dispregio della Costituzione (che definisce invece Scuola ed Università quali istituzioni). Nel vergognoso trand di riduzione della spesa, vengono colpiti gli alunni così come i docenti: ma mentre si consente l’aumento dei costi di mense, libri e trasporti, si crea come diversivo la contrapposizione fra docenti e discenti.
In un’istituzione non esistono “operatori ed utenti”. Si tratta di un corpo vivo di cittadini, regolati nel nostro caso da due sole grandi norme: libertà d’insegnamento e d’apprendimento. Due capisaldi che la controparte, politica e confindustriale, intende mettere a servizio di esigenze a senso unico ove dominano incontrastati arroganza e profitto, deprofessionalizzazione e negazione di ogni garanzia d’impiego: flessibilità e precarietà intesi come dato “strutturale”, l’instabilità lavorativa a vita come elemento di “progresso”. Ecco perchè fa paura il sapere critico. La scuola è sempre stata uno dei motori principali di progresso nella società civile, perciò la si vuole subordinare ed omologare. E tutte le offese portate ad un settore che è stato all’avanguardia (i nostri diplomati erano i migliori d’Europa) e che per molti versi rimane ad alti livelli (vedi l’esempio già trattato della scuola elementare), servono da corollario a questa improvvida strategia, che sta portando l’Italia a perdere costantemente competitività col resto del mondo. Non ne è responsabile “l’inadeguatezza” della scuola, al contrario ne è la sua continua depauperizzazione, lo sono lo stato e gli interessi privati, in un Paese che in Europa spende meno di qualunque altro per istruzione e ricerca. L’Unicobas rivendica l’aumento organico degli stanziamenti per la scuola rispetto al PIL.
Siamo fortemente convinti che l’istruzione pubblica sia preziosa nel garantire un pensiero forte e plurale, anche su base multietnica, l’unica istituzione in grado, in un momento di grande crisi ideale e riemersione di fondamentalismi religiosi e laici, di assumere i principi di un’educazione volta alla solidarietà ed alla tolleranza. Il mondo della scuola pubblica, pluralistico per definizione, è in grande maggioranza consapevole del fatto che sul valore dell’istruzione non si può trattare: la cultura non è merce!
A fronte di tutto ciò è quanto mai necessario che la categoria prenda coscienza, afferri e corregga il proprio futuro. Non sarebbe utile sfuggire al confronto sulla questione della “qualità”.
Premesso che è prioritario l’ottenimento di un salario europeo, occorre sviluppare una grande riflessione sul codice deontologico della funzione docente, rivendicando dignità di professionisti. Fra le grandi professioni non esistono le subordinazioni alle quali stanno piegando gli insegnanti. Eppure si vorrebbe un ritorno sotto mentite spoglie alle note redatte dai presidi, se non addirittura la valutazione degli studenti! Eppure chiunque – persino neo laureati e laureandi – può esercitare la professione docente, sia in proprio che nelle scuole cosiddette “paritarie”, alle quali Berlinguer ha lasciato la possibilità di assumere “al nero” un 40% di “volontari” (evidentemente non bastava la violazione dell’art. 33 della Costituzione operata con un finanziamento strutturale delle scuole private mascherata da legge di “parità”)!
La definizione della deontologia avviene all’interno degli ambiti professionali. Non si può sfuggire alla necessità di una forte selezione di base dei docenti (per una scuola che non certo “casualmente” viene progressivamente delegittimata da quando è divenuta veicolo di progresso di massa) e non si può certo negare “massimalisticamente” (perchè questo sarebbe il peggiore “corporativismo”) la necessità di un osservatorio della società civile sulla scuola, però quale struttura super partes e non gerarchica, comprendente tutte le componenti: è necessario discutere di come la libertà d’insegnamento si relazioni alla libertà di apprendimento, è imprescindibile il rispetto fra i ruoli e non solo dei ruoli.
ALCUNE QUESTIONI PIU’ NEL DETTAGLIO
Per il sostegno, occorre ridare piena vigenza alla L. 517/77, la legge sull’integrazione dei portatori di handicap più avanzata nel mondo (quasi nullificata dalla Finanziaria ’98 con una riparametrazione indecorosa del rapporto alunni classe e portatori di handicap-insegnanti), superando poi le rigide scansioni della L. 104/92 (artt. 3 e 4), garantendo la continuità didattica sul sostegno, istituendo corsi pubblici gratuiti e riconoscendovalore abilitante ai titoli polivalenti, al fine di impedire la riconversione selvaggia sul sostegno (che ripropone l’involuzione verso il custodialismo e prepara il terreno alla reintroduzione delle classi differenziali).
L’Unicobas ha sentito il dovere morale di denunciare il continuo degrado delle strutture, l’apertura agli sponsor privati ed il tentativo di subordinare il pubblico ad interessi di parte. Una vera autonomia scolastica è cosa ben diversa da quella sorta di “autogestione della miseria” che ci viene propinata. Nella nostra proposta identifichiamo in positivo tre assi portanti.
Autonomia didattica, attraverso l’autodeterminazione del monte ore riservato ad ogni materia, piena attuazione delle libertà d’insegnamento ed apprendimento, percorsi e strategie didattiche autogestiti e posti in relazione con le specificità della realtà sociale, possibilità di superare le rigide scansioni dei gruppi-classe, per consentire, da un lato, laboratori ed approfondimenti specifici, dall’altro momenti di aggregazione anche su obiettivi non strettamente curricolari.
Autonomia amministrativa e di gestione, decentramento democratico, trasferimento dei poteri dalle gerarchie agli organismi elettivi, oggi quasi unicamente consultivi: Consigli Scolastici di Distretto e Provinciali, Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Difesa di poteri e prerogative del Collegio dei Docenti. Sdoppiamento delle funzioni di gestione: direttore amministrativo (ex segretario) e coordinatore didattico elettivo (passaggio nei ruoli ispettivi della figura del dirigente scolastico). Revisione del piano di dimensionamento (che oggi impone un minimo di 500 alunni per la sopravvivenza di una scuola autonoma e crea “mostri” con 1300 e più unità), con maggiore attenzione al territorio ed alle piccole entità scolastiche.
Autonomia finanziaria: acquisita la personalità giuridica per tutte le scuole, maggiori finanziamenti pubblici (non richiesti alle famiglie), adeguati e non al ribasso (ben di più di quanto venisse dato prima del recente, inqualificabile, taglio che si riproporrà per l’a.s. 2001/2002). Partecipazione di forze sociali non operanti a scopo di lucro, esclusione della committenza privata. Esclusione del finanziamento pubblico delle scuole private.
Per queste proposte veniamo a volte tacciati di essere “utopisti”, ma ricordiamo ai Confederali che il coordinatore elettivo era nella loro piattaforma degli anni ’70, nonché allo SNALS di essere nato sull’onda della lotta contro la qualifica funzionale: le note, introdotte dal fascismo ed eliminate dai Decreti Delegati nel ’74, che venivano redatte dai presidi a fine anno e che proprio lo SNALS ha chiesto nel ’95 venissero ripristinate!
Né ci sembrano “utopie” il diritto (che hanno quasi tutti, tranne i lavoratori della scuola) ad anticipi sulla liquidazione, l’ingresso gratuito nei musei per docenti e studenti (come in tutta Europa), sgravi fiscali per l’acquisto di libri. Eppure, grazie a loro, neppure tali obiettivi sono stati conseguiti.
Veniamo anche accusati di “corporativismo”, ma mentre noi lottiamo per difendere il tempo pieno ed i diritti dei disabili (due battaglie di civiltà fra le tante), i Confederali e “l’autonomo” SNALS acconsentono all’aumento degli alunni per classe, alla riduzione delle offerte didattiche, al taglio delle classi e del numero degli istituti autonomi, nonché all’utilizzazione di personale non specializzato sulle cattedre di sostegno.
GLI AMMINISTRATIVI, I TECNICI E GLI AUSILIARI
Il trattamento del personale ATA non è meno discriminatorio. L’Unicobas è il sindacato delle funzioni, e difende tutte le professionalità del personale della scuola. Per gli ATA occorre la revisione dell’art.7 della L. 426/90, che oggi quasi impedisce la sostituzione del personale assente per malattia, una retribuzione legata al mansionario per i collaboratori amministrativi che espletano spesso i compiti del direttore amministrativo, uno sviluppo (anche retributivo) dell’ambito (non riconosciuto) di coadiuzione educativa per ausiliari e tecnici, la riduzione d’orario a 35 ore, un adeguamento salariale generale degno dell’Europa, il rispetto dei diritti acquisiti di quanti provengono dagli Enti Locali. Mansionario ATA di competenza dell’Assemblea del personale. Perequazione stipendiale tra ATA della Scuola e dell’Università, nelle condizioni economiche e normative più vantaggiose. Ampliamento degli organici, con riferimento al numero delle classi e dei locali.
LE LOTTE DEL NOSTRO SINDACATO DI BASE E L’ULTIMO CONTRATTO (PARTE ECONOMICA)
Con la grande manifestazione del 17 febbraio 2000, siamo riusciti a cancellare il tentativo di imporre – tramite un contratto sottoscritto da CGIL, CISL, UIL e SNALS – un esame postumo, tra le maglie del quale era stabilito a priori che sarebbe dovuto passare solo un 80% di docenti, selezionati tramite quiz (il resto era ritenuto “somaro” a priori). Al 20% di “eletti” sarebbero andati aumenti pari a 6.000.000 di lire lorde annue non pensionabili (3.700.000 lire nette).
La vergogna continua perchè continua è l’operazione di discredito dei docenti: infatti al concorsone vogliono sostituire altri elementi di “valutazione” discrezionale. E la proposta di De Mauro, di far giudicare i docenti dai presidi è stata, se possibile, ancora più negativa. Ma (come al solito) i sindacati di stato non sono da meno: inventano, via via, “patenti didattiche” a punti (un bollino ogni corso presso gli IRRE – ex IRRSAE – dei quali sono gli “azionisti” di maggioranza), esami “alla francese” (invece di uno solo … uno ogni 3 anni) da sostenersi presso ispettori coadiuvati dai dirigenti, “valutazioni di gradimento” di genitori e studenti… Sono cose che forse vedremo con il prossimo contratto (unitamente al tentativo di aumentare l’orario).
Ma già con il l’accordo(truffa) di San Valentino (14 febbraio 2001) dovremmo aver capito qualcosa. Innanzitutto che non abbiamo avuto alcun “aumento europeo”: 120.000 lire medie nette non colmano certo il milione e cinquecentomila che ci separa dalla media retributiva del continente. Questa cifra è stata segmentata in 3 parti: copertura dell’erosione inflattiva, adeguamento alla media europea ed utilizzazione fondi ex-concorsone (per i soli docenti).
Più della metà dell’eufemistico “aumento” risulta così non pensionabile (non utile neanche per la liquidazione e per la tredicesima mensilità). Infatti questa è la “particolarità” della nuova “retribuzione professionale docenti” e delle prebende per l’inflazione; in più, tale “automatismo” non colma affatto l’erosione del salario (“incrementi” per la metà del 3.2% di inflazione dichiarata e solo a partire dal luglio 2000, con i primi 6 mesi dell’anno che passano “in cavalleria”). Infine, una parte vorrebbero farla utilizzare solo come do ut des per prestazioni aggiuntive (cottimismo).
Dulcis in fundo, sono stati ulteriormente appiattiti gli automatismi stipendiali. Gli scatti biennali che avevano i lavoratori della scuola in Italia, ridotti con la privatizzazione del rapporto di lavoro a 6 “gradoni” dal ’95, vengono ulteriormente sterilizzati con l’introduzione di 3 sole fasce d’età. Ed anche ciò svela il nuovo passo della privatizzazione del rapporto di lavoro che i Confederali avevano in mente: la nuova fase della privatizzazione del rapporto di lavoro, con una sterilizzazione persino dei “gradoni” (cambiata la direzione politica del Paese provvederanno forse a proposte meno impopolari rispetto al tempo nel quale fiancheggiavano spudoratamente tutti i tagli del “governo amico”).
Il cammino è ancora lungo. Una prima vittoria però si è avuta, laddove solo 300 dei 1260 miliardi stanziati per il “concorsaccio” rimangono per operazioni di differenziazione, non più legate al “merito”, bensì ad uso delle scuole “per attività complesse ed impegni maggiorati”. Inoltre è stata reintrodotta (anche se solo come simulacro) un qualcosa di simile a quell’indennità che avevamo conquistato con le lotte della fine degli anni ’80 e che ci era stata tolta nel ’95.
Naturalmente, questi elementi indicano unicamente che siamo riusciti a modificare qualche parte del quadro. Non li sbandieriamo certo “trionfalisticamente”, perché affatto sufficienti ad essere accolti come segnali svolta. Anzi, va denunciato che sono stati “conditi” con ambiguità e vergogne assolute. Agli ATA è stato destinato un contratto di una povertà totale. I soldi del concorsone, dopo l’entità della protesta manifestatasi, in un Paese “normale” sarebbero stati destinati integralmente ad aumenti per tutti. A maggior ragione, visto che il salario “da fame” (cfr. De Mauro) è rimasto tale: anzi, per quella tranche del contratto relativo alla rivalutazione “europea” i Confederali, che avevano rifiutato sdegnosamente le 30.000 lire offerte dal ministro (la famosa “pizza”), si sono poi accontentati di 39.000 lire. Secondariamente perché ai 300 miliardi di cui sopra ne hanno aggiunti altri 116, raccimolati in “corner” ma non per aumentare le retribuzioni, bensì per la medesima operazione di differenziazione. Infine perché tale differenziazione (già paradossale in sé) si propone in modo del tutto singolare, esautorando i Collegi Docenti ed investendo le sole RSU nella trattativa col dirigente per l’assegnazione di tali fondi: dovrebbero riguardare operazioni di carattere didattico ma senza che si sia tenuti a raccogliere le indicazioni dell’organismo istituzionalmente preposto alla definizione di tale ambito.
Va da sé che le nostre Rsu ascoltano invece il Collegio Docenti e sono impegnate nella ricerca di elementi oggettivamente validi per la distribuzione dei fondi: o l’attribuzione di un quantum uguale per tutti, come riconoscimento dell’aumento dei carichi di lavoro dovuti all’autonomia, oppure l’assegnazione per impegni nella scuola “tradizionalmente” non retribuiti (uscite sul territorio, che in tutti gli altri ambiti lavorativi vengono premiate con specifiche indennità di missione; maggior numero di classi da seguire, orari più gravosi, etc.).
E’ infine da rigettarsi la logica del cottimismo che questo contratto tende ad indurre. Ha origine sempre dalla stessa idea, ovvero che la nostra sia una funzione “part-time” per la quale sarebbero legittimi aumenti sono a condizione che “si lavori di più”.
Stefano d’Errico (Segretario Nazionale dell’Unicobas)