Cib Unicobas

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Scuola e Costituzione

Dionen

Nov 21, 2018

Con la fine del fascismo, è nella Costituente che si sviluppa il primo grande dibattito sull’istruzione pubblica. È lì che si comincia a discutere sulla creazione di un organismo nazionale, con diramazioni provinciali, eletto da docenti, non docenti, studenti e genitori (nel rispetto dei ruoli), a suffragio universale, adibito a garantire, così come per la Magistratura, la deontologia, una vera autonomia professionale e la terzietà della Scuola pubblica, esattamente come avrebbero voluto i migliori padri costituenti.

In precedenza, persino durante il fascismo, esisteva un Consiglio della Pubblica Istruzione. Nel 2016, nel pieno della campagna referendaria per il ‘No’ alle modifiche costituzionali renziane, il mai abbastanza compianto Ferdinando Imposimato mi segnalò un passaggio del dibattito.
Padri costituenti del calibro di Parri, Calamandrei (già membro del Consiglio della P.I.), Codignola, Foa, Lussu, Malagugini, Bernini, nella seduta antimeridiana del 24 Luglio 1947, presieduta da Terracini, protestavano per la protervia del Ministro democristiano Gonella, che aveva provocato le dimissioni di 23 membri su 36 di quel Consiglio per protesta relativamente al punto sulla conservazione in carriera o l’allontanamento dall’ambiente universitario dei professori nominati “per chiara fama”.
Gonella aveva anche disposto singolari tempistiche e meccanismi elettorali, prevedendo l’eleggibilità di solo tre quarti dei membri del nuovo Consiglio (gli altri sarebbero stati nominati da lui). Il riordino del Consiglio della P.I. era stato operato con decreto legislativo del Governo ‘inaudita altera parte’, senza parere del Consiglio di Stato (come invece s’era fatto persino per il Consiglio Superiore delle miniere), con data per le elezioni fissata d’estate al 26 Luglio, a scuole chiuse, con un solo mese di campagna elettorale (ragion per cui se ne chiedeva almeno il rinvio).
Il DC Leone, futuro Presidente della Repubblica, ebbe l’ardire di ribattere: «…non credo si possa sostenere che la disciplina del Consiglio Superiore abbia riferimento con la materia costituzionale». Ed aggiunse testualmente (in linea con gli attuali sproloqui sulla ‘governabilità’): «…qui si agita un problema (..) di tecnica di governo e non di carattere politico (..) bisogna lasciare un minimo di libertà di organizzazione legislativa». Rispetto alle critiche di merito, Leone semplicemente ‘sorvolò’: «…in un momento delicato come questo (..) cosa significa sacrificare qualche piccolo dettaglio?». Del resto, aggiunse: «La democrazia, in un Paese che ne è rimasto privo per oltre venti anni, non si restaura d’incanto». Una sorta di lapsus, diremmo oggi. Un’ammissione palese della forzatura di assai dubbia matrice democratica operata da Gonella.
Venne poi la volta di Croce, molto chiaro in merito: «E se nelle crisi dei nostri giorni deprecai che il Ministero dell’Istruzione fosse occupato dai democristiani, è tra l’altro perché io temevo gli effetti della lunga brama e della lunga astensione, e gli eccessi e le prepotenze che ne sarebbero seguiti. Ciò purtroppo è accaduto. (..) Di ciò è prova il contegno di Gonella verso i deliberati pareri del Consiglio Superiore dell’Istruzione, che anche uomini insigni della sua parte hanno deplorato. (..) Per di più, egli ha adottato un metodo, che dirò imperatorio nel sentimento e precipitoso nell’esecuzione; e anche di questo è prova la riforma del Consiglio Superiore, alla quale ha avuto un anno intero per pensare e che ha attuato con un decreto urgentissimo, togliendo all’Assemblea il respiro per esaminarlo e criticarlo ed emendarlo».
Parri ribadì infine che sarebbe stato giusto: «Mantenere l’invito a sospendere l’esecuzione del provvedimento, insistendo nel sottoporre il nuovo ordinamento all’Assemblea Costituente», per «risolvere la vertenza con l’attuale Consiglio Superiore». Come riportano gli annali, la mozione Parri (Partito d’Azione) passò, a scrutinio segreto, con 218 voti a favore e 194 contro.
Questa seduta è poco nota, ma tutti sanno come andò a finire: declinata l’influenza liberal-socialista del Partito d’Azione e di parti del Psi – un partito che comunque fece cadere il primo governo di centro-sinistra per non far passare quel finanziamento pubblico delle scuole private che, anticipato dalle regioni ‘rosse’, verrà altrettanto paradossalmente reso lecito il 10.3.2000 dal primo ministro proveniente dall’ex Pci con la legge di “parità”, la quale ha persino ‘sdoganato’ per le graduatorie di stato i precari-schiavi cooptati clientelarmente delle scuole private a danno dei precari storici delle pubbliche – il Consiglio ebbe ugualmente vita altrettanto travagliata sino al 1974, quando, col Dpr 416 se ne ricostruì il senso. Iniziava la fase ‘moderna’ del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. La legge porta la firma di Riccardo Misasi, moroteo, l’uomo politico italiano che più ha fatto per la scuola. Gli effetti del compromesso con la destra e col resto della sinistra del suo partito, saranno l’elettività parziale ed un ‘potere’ reso solo consultivo, con l’eliminazione di quei pochi ambiti per i quali precedentemente il parere dell’organismo era vincolante. Parallelamente venivano creati anche i Consigli Scolastici Provinciali e di Distretto.
Elemento comunque molto rilevante l’elezione nazionale a suffragio universale per tutti gli operatori della scuola pubblica (provinciale per i Csp).
Presso il Cnpi, fra gli eletti, veniva istituito il Consiglio di Disciplina per la Secondaria Superiore. Con lo stesso sistema, presso i Consigli provinciali nascevano i Consigli di Disciplina per i docenti degli altri ordini e gradi scuola, nonché per il personale ata, tutti attivi su base locale.
La scuola cambiava effettivamente volto e si democratizzava davvero. In ogni istituto, il Collegio dei Docenti prendeva in mano la definizione del progetto educativo; indicava il vice-preside e, alle Elementari, anche la destinazione degli insegnanti alle classi; calendarizzava le riunioni per tutto l’anno; nominava tutte le Commissioni necessarie, da quella per stabilire il piano degli orari di cattedra, a quelle utili per l’aggiornamento e l’arricchimento dell’offerta formativa. Si formavano i Consigli di classe che esprimono collegialmente, votando, la valutazione degli alunni. Venivano finalmente eletti i rappresentanti degli studenti e dei genitori, con la facoltà di intervenire persino sulla scelta dei libri di testo, con spesa assistita dallo stato. Si stabilivano gli orari di ricevimento e di discussione delle pagelle. Nascevano i Consigli di istituto, con membri eletti liberamente da tutte le componenti, dai docenti, agli ata, ai genitori, con il compito di deliberare su qualsiasi spesa. Prendevano davvero il via nella scuola le assemblee in orario di servizio, che qualsiasi sigla partecipasse alle elezioni per il Cnpi e per i CcSsPp aveva facoltà di indire, con esoneri previsti per i candidati per tenere la relativa campagna elettorale.
Parallelamente, era anche il tempo dell’innovazione didattica: alla metà degli anni ’70 si affermava il tempo pieno e la scuola Elementare italiana diventava sempre più ricca sotto il profilo della ricerca e dell’impostazione metodologico-didattica, crescendo costantemente nella classifiche internazionali. Nel 1977 era nata l’integrazione dei diversamente abili: l’Italia era stata la prima al mondo ad operare questa scelta. Nel 1990 la scuola Elementare italiana diviene prima al mondo secondo l’Ocse, un risultato che coronava il grande successo dei nuovi programmi (approvati con Dpr n.° 104 del 29.3.1985), voluti dalla senatrice Franca Falcucci (il secondo miglior ministro dell’Istruzione di età repubblicana) e redatti da fior di pedagogisti come Mauro Laeng, Raffaele Laporta, Roberto Maragliano, Ferdinando Montuschi, Clotilde Piperno Pontecorvo, Cesare Scurati, Gioacchino Petracchi, Giacomo Cives, Franco Frabboni ([1]), in tempi nei quali erano ancora in attività eminenti studiosi del calibro di Visalberghi, Corda Costa, Canevaro.
Però anche questa riforma, disegnata da Misasi, era destinata ad avere una vita molto breve. Grazie alla legge sulla “Autonomia” i Consigli Scolastici Provinciali e di Distretto non esistono più dal 2000 ed il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione non è più stato eletto dal 1997 al 2015, diventando Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, oggi ben poco attivo.
Se avessero tolto organismi di tale importanza a qualsiasi altra categoria professionale ci sarebbe stata un’insurrezione, mentre noi abbiamo avuto persino il ministro Berlinguer, poi fautore della ‘Buona scuola’ renziana, che intendeva ‘valutarci’ a quiz, metodo imposto agli studenti con il dozzinale metodo Invalsi.
Il neoliberismo ha trovato alleati potenti nel populismo, anche in buona parte di quella sinistra ‘pan-operaista’ che ha sempre visto con sospetto gli insegnanti. Ben compresa la nullità della gran parte degli interlocutori, i fautori del liberismo sono riusciti a ‘sfondare’ anche sul più generale pieno culturale, teleguidando un processo di spersonalizzazione della funzione docente e della scuola pubblica, riuscendo a distruggere la qualità della (politicamente) scomoda scuola di massa. La Confindustria europea, affilate le armi alla metà degli anni ’80 in un grande Convegno a Venezia, in accordo con la Confederazione Europea dei Sindacati (Ces), una sorta di Cisl internazionale, alla quale aderisce anche la Cgil, ha imposto la scuola-quiz e delle “competenze”, distruggendo la scuola delle conoscenze.
Dalle accuse di ‘corporativismo’ rivolte alla Scuola, mosse dalle organizzazioni di massa (in primis dai sindacati di partito), si passa, senza soluzione di continuità, all’adesione piena al neo-liberismo. La Cgil, segretario Luciano Lama, lo fa nel 1978, con la famosa ‘svolta dell’Eur’, scegliendo, con buona pace dei ‘mitici’ operai la politica dei sacrifici. Comincia la desertificazione e delocalizzazione industriale, appare il ‘terzo mondo interno’. In Italia siamo al tempo delle ‘due società’ e delle rivolte giovanili, del frazionamento sociale fra ‘garantiti’ e non. La ‘linea’ veniva dai partiti di riferimento, in primis dal vecchio PCI, ma anche dall’area che avrebbe costituito il futuro nuovo ‘centro sinistra’, con la sinistra Dc priva di Moro e senza il Psi.
Il neo-liberismo globalizzato attacca persino le professioni liberali, abbatte ogni simulacro di deontologia, elimina il protezionismo, trasforma tutto in prestazione di mercato, saperi compresi. La destra della globalizzazione vuole meri esecutori, apprendisti da ‘alternanza’ scuola-lavoro: vuole una scuola minimalista, priva di sapere critico.
Il fascismo storico, con una visione piramidale, idealista, neo-aristocratica e classista della scuola e dei saperi, faceva comunque leva sul ‘classicismo’, sull’epica, sulle arti, sul futurismo. Questo fornì strumenti critici che si trasformarono in antifascismo. Ciò narra la storia dei registi del neorealismo italiano, tutti formatisi presso la scuola di cinematografia del regime, ma tutti poi impegnati nella resistenza o nel mondo progressista. Lo stesso successe con il ’68: la vecchia scuola autoritaria produsse una generazione rivoluzionaria.
La nuova destra non ha ripetuto questo ‘errore’, e, trovato un grande alleato nell’idiotismo ‘catto-comunista’, ha trasformato l’istituzione Scuola in mero ‘servizio’. Non certo per lo ‘spirito di servizio’ verso la collettività (cosa che rappresenterebbe già un ossimoro a fronte della necessaria autonomia della scuola), bensì per mettere la scuola al proprio servizio.
Nasce così l’opera di deprofessionalizzazione, immiserimento e mortificazione dei docenti, avviata negli anni ’80 col placet dei sindacati pan-operaisti e pan-impiegatizi.
La nuova destra, con la Gelmini, inventa un Liceo Scientifico senza il latino. Come si vede non c’è più nessun riferimento a Gentile. Inventa una versione ridicola della geografia sociale: la “geostoria”, togliendo spazio alla storia (identità sociale e del Paese) ed alla geografia. Toglie spazio alle lettere. Costruisce una scuola di stampo statunitense, dove queste materie non sono considerate ‘da Liceo’, bensì di mero approfondimento universitario. Vuole la scuola-quiz (altro che ‘nozionismo’!!!). E naturalmente insegue i gusti perversi del mercato. Vuole la scuola-emporio, che produce consumatori e meri esecutori.
La scuola liberista, questa è la vergogna da rottamare. Non ha senso altrimenti ‘difendere la Costituzione’, se non si ricomincia davvero da capo, naturalmente dalla Scuola. Infatti è la scuola ad essere stata decostituzionalizzata per prima, perché se si colpisce la scuola si ferisce profondamente il futuro del Paese e gli si toglie identità storica e sociale. La stessa cosa succede quando si ledono le libertà sindacali, perché è così che si ingannano e disarmano i lavoratori e si favorisce prepotentemente il liberismo col suo Medio Evo prossimo venturo.
Uno dei motivi dell’eliminazione delle elezioni di categoria, nelle quali nell’88 come Movimento della Scuola raccogliemmo il 7% dei voti, sta anche nel fatto che servivano al calcolo della rappresentanza sindacale per una soglia al tempo fissata al 5%. Nel 1997 infatti, un governo di ‘centro-sinistra’, con tanto di appoggio di ‘Rifondazione Comunista’ e dei ‘Verdi’, fece il più gran regalo possibile a Cgil, Cisl, Uil e firmatari di contratto: la nascita delle ‘Rsu’, la cui utile elezione nelle scuole (dov’era nato il sindacalismo di base) e nelle singole unità produttive non è affiancata da una lista nazionale per determinare la consistenza dei sindacati.
Da allora occorre presentare una lista in ogni scuola, ma non si può entrare per cercare chi si candida ed i sottoscrittori perché al sindacalismo di base sono negate le assemblee in orario di servizio, ore sequestrate ai lavoratori e date in monopolio ai firmatari di contratto. In più, ai sindacati nuovi serve un risultato altissimo, intorno al 9%, perché la soglia del 5 si stabilisce facendo ‘media’ fra voti e sindacalizzati.
Le assemblee non possono tenersi neppure quando presentiamo una lista, per far conoscere il nostro programma, ma solo dopo l’eventuale elezione di una Rsu e solo in grazia di 20 sentenze della magistratura che lo impongono ai sensi dello Statuto dei Lavoratori in contrasto con la normativa contrattuale ‘bulgara’ che vorrebbe imporre solo assemblee all’unanimità (lasciando però ai firmatari di contratto la facoltà di contrattare anche nelle scuole dove non hanno raccolto neppure un voto, nonché di tenere assemblee ovunque come sigla).
Non pachi, lavorano per lo smantellamento di quel che resta dello stato giuridico degli insegnanti nonché degli organi collegiali: Collegio Docenti (che ormai si vorrebbe solo consultivo) e Consiglio di Istituto (da trasformare in ‘consiglio di amministrazione’ di scuole-fondazioni guidato dal dirigente anziché da un genitore).
È sempre con la ‘autonomia’ che nasce la figura del ‘dirigente’, ruolo aziendalista che confligge con comunità educante ed ambito collegiale di autogoverno della scuola. Eppure, ai tempi, in quel dibattito della Costituente, persino Leone parlava chiaramente di ‘autogoverno della scuola’. Cosa è successo quindi al mondo dell’istruzione?
Parliamo di oggi. Tra i ‘risvolti’ dell’accordo truffa da 85 euro medi lordi mensili a fine 2018, nessuno ricorda che Cgil, Cisl e Uil, ai tempi di Tremonti hanno accettato che il contratto divenisse triennale da biennale che era (per la parte economica). Silenzio massimo poi sul fatto che hanno portato la scuola nel calderone indistinto del pubblico impiego, all’interno del quale vige la regola (DL.vo 29/1993) che gli ‘aumenti’ non possano superare l’inflazione ‘programmata’ negli anni precedenti dalla parte datoriale (Ministro dell’economia).
Per questo, col passaggio dalla lira all’euro, avemmo un rinnovo del 2% a fronte del dato Istat al 6% e di un aumento effettivo dei prezzi al consumo pari al 50%. Per questo, dopo la ribellione della Scuola della seconda metà degli anni ’80, dal 1995 abbiamo contratti sempre sotto l’inflazione dichiarata (dato Istat) e reale (vero e ben maggiore aumento del costo della vita) e non potremo mai neppure avvicinarci alla media retributiva europea, ove siamo (tenendo presente anche la diversità dei costi standard) all’ultimo posto, persino sotto a Grecia e Portogallo.
O si esce dal pubblico impiego e dal campo di vigenza del DL.vo 29/1993, come l’Unicobas vuole da anni, o risulta persino ridicolo parlare di stipendi. Con il DLvo 29/93 il governo Amato, col placet di CGIL, CISL, UIL, privatizza il rapporto di lavoro della Scuola (ma non dell’Università, dei magistrati, dell’esercito, della sicurezza). Questo è il primo passo essenziale dell’impiegatizzazione del corpo docente. Da allora non esiste più il ruolo, bensì l’incarico a tempo indeterminato (tipico un tempo del supplente annuale), o a tempo determinato per i precari (‘lasciate ogni speranza voi che non siete entrati’).
Il ruolo era soprattutto uno scudo a garanzia dell’autonomia della funzione docente e del rispetto del dettato costituzionale sulla libertà di insegnamento, tipico del lavoratore ‘non subordinato’ e professionale (valutabile solo da chi ha competenze per farlo, com’era con i consigli di disciplina eletti previsti dai Decreti Delegati ed aboliti nel 2008 da Brunetta).
La contestuale trasformazione del preside in ‘datore di lavoro’, ancora nel 1993, anticipa la L. 107/2015, ‘Cattiva Scuola’ di Renzi, che chiude il cerchio facendone di fatto, come l’Unicobas paventava già all’epoca, colui che ‘assume’ con la chiamata diretta, ‘valuta’ discrezionalmente e dismette i docenti senza controllo pubblico, crea il suo team a propria immagine e somiglianza (anche sotto il profilo politico e religioso) come nelle scuole private. Esattamente come avrebbero voluto la Aprea (FI) con il suo ddl, ma anche Ichino, la Lega, Ghizzoni (PD) e Rampelli (AN). Questa figura è divenuta arbitro assoluto di ogni controversia disciplinare, insieme all’Ufficio Scolastico Provinciale.
Dulcis in fundo, la vexata quaestio degli automatismi d’anzianità. Il Dlvo 29/93 li cancella del tutto. E’ stato seguito un ‘percorso a tempo’: il ‘congelamento’ non è che l’anticamera dell’eliminazione degli ‘scatti’, poiché dal 1993 non esiste più un capitolato di spesa ad essi dedicato, ed il quantum viene prelevato impoverendo gli stanziamenti per il fondo di istituto. Erano biennali, il Dlvo 29 li ha trasformati in 6 ‘gradoni’: il primo di 3 anni, i successivi tre di 6 anni e gli ultimi due di 7. Anche senza alcun rinnovo contrattuale, oggi avremmo una retribuzione molto più alta se avessimo conservato quegli scatti. Gli aumenti biennali d’anzianità (che invece hanno conservato docenti universitari, magistrati e militari di carriera) li ha persino la Svizzera, paese ‘meritocratico’ per eccellenza, ove anzi sono previsti solo per gli insegnanti, perché in tutto il mondo si sa bene che ad insegnare si impara soprattutto insegnando.
Per le ragioni su addotte (ed al contrario dei Cobas, per i quali chi opera nella scuola non va distinto dal mondo impiegatizio), l’Unicobas vuole uno specifico contratto scuola fuori dall’area del pubblico impiego (dove non esistono funzioni assorbenti come quella dei docenti né le responsabilità penali che gravano su chi a che fare con minori) e l’istituzione di un Consiglio Superiore della Docenza (con diramazioni provinciali), per il 95% eletto da docenti, ata, studenti e genitori (nel rispetto dei ruoli), a suffragio universale, adibito a garantire, così come per la Magistratura, la deontologia, una vera autonomia professionale e la terzietà della Scuola pubblica, esattamente come avrebbero voluto i migliori padri costituenti.
Senza tutto ciò la privatizzazione della scuola e la sua subordinazione alle caste della politica ed agli interessi economici di parte, è sicura. Un contratto per tutta la scuola, docenti ed ata, dal momento che anche un collaboratore scolastico ha compiti di vigilanza che un usciere del ministero non ha, così come gli aiutanti tecnici hanno un ruolo di coadiuzione educativa e gli amministrativi firmano bilanci di milioni che ovunque (cominciando dal sistema privato) darebbero luogo a retribuzioni ben più alte.
Stefano d’Errico (Segretario nazionale dell’Unicobas)